Sordo o son desto?
Nel giugno 2019 la nazionale di pallavolo femminile vince per la prima volta la medaglia d’oro ai campionati Europei. Ma non si tratta di una squadra qualsiasi: le giocatrici sono tutte sorde. L’annuncio della vittoria sui media online dà il la a un walzer di parafrasi dell’aggettivo “sordo” che evidenzia come la nostra società conosca poco la comunità sorda e la sua travagliata storia e sia vittima di ignoranza e pregiudizi di antica data.
Uno dei pregiudizi, e delle definizioni, difficili da scalfire riguarda l’aggettivo “sordomuto” che attribuisce automaticamente al sordo la condizione di mutismo. Fin dall’antichità e almeno fino al ’500 si supponeva, infatti, che le persone nate o divenute sorde nei primissimi anni di vita (sordi pre-linguistici) fossero incapaci di comprendere il linguaggio verbale e di parlare a causa di una lesione dell’orecchio e di un cattivo funzionamento dell’apparato fonoarticolatorio. In realtà, l’apparato fonatorio del sordo è generalmente integro, ma l’impossibilità di ascoltare i suoni prodotti nell’ambiente che li circonda e di controllare – attraverso un feedback uditivo – le loro produzioni orali fanno sì che i sordi non producano spontaneamente delle parole.
Tuttavia, proprio perché il deficit riguarda soltanto l’apparato acustico, i sordi possono essere educati all’uso della parola attraverso un percorso logopedico che insegna a percepire la lingua orale attraverso gli altri sensi. Durante le sedute di logopedia, il bambino sordo apprende la lettura labiale, ovvero a distinguere come le parole vengono articolate sulle labbra del suo interlocutore (lettura labiale) e a modulare la propria voce percependone le vibrazioni con le dita sul proprio collo e su altre parti del corpo. I sordi, infatti, non possono controllare la voce emessa spontaneamente in quanto sprovvisti della capacità di ascoltare e di autoascoltarsi, per cui la loro voce può risultare troppo alta o viceversa troppo bassa, tendenzialmente gutturale.
Ma dunque i sordi non hanno una loro lingua? Al contrario! Essi si esprimono attraverso un codice di natura visivo-gestuale emerso spontaneamente e sviluppatosi “nel corso del tempo da una collettività priva dei mezzi sensoriali necessari a esprimersi con la voce” e che conosciamo come lingua dei segni. Ogni Paese ha una sua lingua dei segni e addirittura dei dialetti/delle varianti regionali. Dalla fine del ‘700 e per un secolo, la lingua dei segni fu usata per educare i sordi in scuole a loro dedicate. Purtroppo, nel 1880 durante il famoso Congresso di Milano, considerata la “non dubbia superiorità della parola sui gesti per restituire il sordomuto alla società e dargli una più perfetta conoscenza della lingua”, si stabilì che “il metodo orale” dovesse “essere preferito a quello della mimica” e si costrinsero i sordi di tutta Europa a rinunciare alla lingua dei segni in favore della lingua orale. Soltanto nel 2010 durante il Congresso di Vancouver vengono finalmente rigettate tutte le risoluzioni approvate nel 1880, ridando ai sordi la libertà di esprimersi attraverso la loro lingua naturale e offrendo loro l’opportunità di ricevere un’educazione bilingue bimodale in cui una precoce acquisizione della lingua dei segni sia seguita dall’intervento logopedico finalizzato all’apprendimento della lingua parlata e scritta.
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