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L’Alto Adige/Südtirol alle soglie dell’età della conoscenza

Giorgio Mezzalira

NUOVI SCENARI, NUOVE SFIDE

Non c’è lettura più istruttiva del Piano provinciale di sviluppo e coordinamento territoriale/Landesentwicklungs- und Raumordnungsplan (Lerop) per capire quello che è successo in Alto Adige tra la fine degli anni ‘80 dello scorso secolo e i primi ‘90. Il titolo del volume in cui è pubblicato sintetizza emblematicamente un programma: “Alto Adige – Obiettivo 2000 / Südtirol – Leitbild 2000”. Dagli anni ‘60 in poi simili documenti programmatici, giuridicamente vincolanti, venivano elaborati per fornire una base di orientamento per la politica locale e si fondavano su piani di sviluppo quinquennali, buoni quindi per una legislatura. La prima bozza del Lerop fu presentata dagli esperti che la elaborarono1 nel marzo 1992 e, dopo un confronto tecnico e politico, venne approvato con Legge provinciale (18 gennaio 1995, n. 3). Il primo capitolo “L’analisi della situazione” si apriva con una cartina geografica dell’Europa in cui figurava anche il piccolo Alto Adige/Südtirol; non un didascalico rimando cartografico ma un chiaro elemento di proiezione. La cornice geopolitica in cui la nostra realtà territoriale si era mossa per l’intera lunga stagione del pacchetto aveva mantenuto il perimetro dei rapporti intercorsi tra Bolzano, Roma, Innsbruck e Vienna e si accompagnava agli obiettivi di completamento dell’edificio autonomistico. Per circa un trentennio, a partire dai primi anni ‘60, l’Alto Adige/Südtirol aveva guardato al proprio futuro impegnandosi nella costruzione della propria casa e consolidando la specialità del sistema autonomistico. Ora la dimensione europea, il progresso nella realizzazione del Mercato comune, rappresentavano il nuovo contesto di riferimento con cui misurarsi.

La chiusura della vertenza altoatesina (1992), aperta nei primi anni ‘60 davanti
all’ONU, costituì per la politica e per l’intero sistema Alto Adige/Südtirol un vero e proprio turning point. Tramontava la generazione di uomini politici che, come Magnago, avevano guidato tutte le fasi del pacchetto e gestito il lungo processo di attuazione delle norme autonomistiche, fino ai passi per il rilascio della quietanza liberatoria. Il nuovo Landeshauptmann (1989) Luis Durnwalder si presentò come l’uomo delle aperture, del pragmatismo, del dialogo fra i gruppi linguistici. Finito lo stillicidio degli attentati dinamitardi, la tenuta di buoni rapporti tra italiani e tedeschi era garanzia di stabilità del sistema, un bene prezioso cui non guardavano solo gli operatori economici. Vi era una reale domanda di convivenza tra i gruppi e la convinzione che si trattasse di superare una politica condizionata dalla logica degli schieramenti etnici. L’aggettivo “interetnico” non accompagnava più solo la comunicazione politica del Sudtirolo alternativo ispirato da Alexander Langer, entrava nel lessico – oltre che nelle pratiche – di gruppi e associazioni che guardavano alla collaborazione tra italiani, tedeschi e ladini come un elemento di ricchezza.

La stampa italiana rilanciò l’immagine dell’Alto Adige/Südtirol. Verso l’opinione pubblica nazionale non era più la provincia delle bombe, bensì il simbolo nostrano della glasnost e della perestrojika. Diventava il paradigma di una regione dalla vocazione europea: una casa comune. La fine della guerra fredda, il contesto pacifico in cui era avvenuta la riunificazione della Germania e le prospettive dell’abbattimento delle frontiere in Europa favorirono, in quella fase, un clima di distensione ed esercitarono un positivo influsso, rafforzando il partito del dialogo e della ricerca del compromesso.

L’ultimo decennio del XX secolo fu caratterizzato da profonde trasformazioni geo-politiche, economiche e sociali. Il crollo del muro di Berlino, l’Europa della moneta unica e la globalizzazione, le migrazioni, l’innovazione tecnologica, furono fenomeni di ampia portata con ricadute su scala mondiale e regionale. In una crescente interdipendenza tra il contesto globale e locale anche l’autonomia altoatesina si confrontava con nuove sfide. Si coniò la formula dell’“autonomia dinamica”, che sintetizzava il carattere progressivo che doveva caratterizzarla, ovvero l’ampliamento graduale dei poteri di autogoverno. Lo spazio europeo offriva opportunità di crescita, scambio e cooperazione, ma era anche il terreno su cui testare la tenuta della specialità dell’autonomia altoatesina. Le spinte prodotte dalla caduta delle barriere tra stato e stato, dall’affacciarsi di prospettive di tipo federalista, venivano percepite come occasione per posizionarsi istituzionalmente e territorialmente in modo equidistante da vecchi e nuovi centri di potere e di influenza. Un passaggio considerato obbligato sia per esercitare in proprio un ruolo di punto/centro di rete nei rapporti con altre regioni europee, sia per proteggersi da politiche nazionali o comunitarie, che potevano minare le garanzie offerte dalla specialità della nostra autonomia. Il futuro dell’Alto Adige/Südtirol si giocava fondamentalmente sul piano del massimo decentramento dei poteri da Roma, verso il raggiungimento di forme più compiute di autogoverno provinciale. E ci si orientava a definire un assetto territoriale che guardava verso la formazione di un’entità microregionale. Un traguardo da cogliere senza produrre strappi o forzature, anche perché Roma, per quanto pensata sempre più lontana, restava la principale fonte di sicurezza e la principale cassaforte della nostra autonomia. E anche perché l’Europa, per quanto pensata un po’ più vicina, era nello stesso tempo punto d’attrazione e Centro da cui mantenere le debite distanze. Sotto il profilo delle concezioni territoriali la nostra classe dirigente, o meglio quella che rappresentava interessi di gruppi, associazioni e partiti che traevano benefici e riconoscimento dalla specialità – linguistica e culturale – dell’area territoriale, appariva classificabile, come avrebbe evidenziato una ricerca della Fondazione Agnelli (Diamanti 1997, 49–99), quale esponente e interprete di un federalismo di tipo “dissociativo e particolaristico”, definibile in termini di “etnoprovincialismo”. Venivano cioè marcate le differenze e le specificità territoriali, in una logica che faceva prevalere i caratteri “esclusivi” dell’autonomia.

L’ALTO ADIGE/SÜDTIROL TRA MODERNIZZAZIONE, INNOVAZIONE E PROVINCIALIZZAZIONE

La nascita di un unico vasto mercato europeo e l’internazionalizzazione dell’economia determinarono in generale condizioni di sviluppo economico e alzarono la soglia della concorrenza e dell’innovazione tecnologica. Modernizzare, dinamizzare l’economia e lo sviluppo locale, confrontarsi a più livelli con gli standard dell’innovazione e della concorrenza e, nel contempo, garantire l’equilibrio “ben temperato” di un sistema i cui indicatori economici e sociali ne decretavano lo stato di buona salute, rappresentarono le priorità e gli obiettivi per la provincia di Bolzano dell’ultimo scorcio del XX secolo.

Al pari di altre regioni alpine l’Alto Adige/Südtirol si era retto per tradizioni storico-culturali, economie e governo, sui valori della conservazione e della stabilità. Questo aveva dato luogo, non alla negazione dei caratteri dell’innovazione – il tempo in Sudtirolo non si è mai fermato – bensì erano stati semplicemente resi compatibili con i caratteri specifici della nostra realtà. In altri termini, c’era stato il tempo necessario per temperarli e introdurli, senza minare la tenuta e la riproducibilità del sistema stesso. Emblematico il caso delle piccole realtà industriali cresciute nelle valli della provincia negli anni ‘60, capaci di vincere forti resistenze ideologiche e politiche contro l’impianto di fabbriche in Alto Adige. Uno dei caratteri peculiari che storicamente aveva garantito la tenuta economica e sociale delle regioni alpine si poteva riassumere nel concetto di “innovazione difensiva” (Coppola & Schiera 1991), ovvero quel tanto di innovazione in più a cui anche le unità realmente conservatrici erano costrette per poter tenere il passo con i tempi e quindi conservarsi.

Fin dagli anni ‘90 dello scorso secolo i processi paralleli di molecolarizzazione e globalizzazione in atto non avevano né travolto, né sconvolto il collaudato sistema Alto Adige. Rispetto ai primi, la nostra era una società che mostrava ancora rodati meccanismi di integrazione e che non risentiva della più generale crisi che attraversava la società italiana. Rispetto ai secondi, la nostra era una piccola realtà, tanto sul piano economico, quanto su quello territoriale, iscritta coerentemente nella logica di fondo, che li accompagnava: la globalizzazione imponeva strategie e culture di nicchia. Inoltre, ma era un dato che valeva in generale, la forza dell’impatto di quei cambiamenti era tale da consigliare atteggiamenti e scelte di grande equilibrio. Anche perché comportavano la ridefinizione delle coordinate di riferimento proprie di ogni società: lo “spazio”, ovvero il territorio, le sue economie e la rete di relazioni, e il “tempo”, ovvero la sua storia, la sua cultura.

“Alla chiusura del lungo iter che ha definito l’Autonomia – recitava un paragrafo dei principi fondamentali su cui era impostato il Lerop – si deve individuare un ruolo capace di creare energie e speranze nuove, in una sintesi tra il patrimonio della tradizione e le esigenze vitali d’oggi” (Lerop 1995, p. 123). Alla preoccupazione di trovare la giusta proporzione tra tradizione e modernità si aggiungeva però un ulteriore motivo di apprensione rispetto al nuovo che avanzava, rappresentato dai ritmi elevati con cui si muovevano lo sviluppo e la globalizzazione, tali da mettere in moto in parallelo, oltre che alimentare con maggiore intensità, la necessità di aprirsi e il bisogno di chiudersi: se innovare e innovarsi era una scelta obbligata, preservare e preservarsi era il suo corollario. C’erano sicuramente condivisibili ragioni per mantenere le debite distanze da un mercato che avanzava nel nome dell’uniformazione e che rischiava di far valere le ragioni dei grandi potentati economici. E c’erano altrettante condivisibili ragioni per coltivare un po’ di sana diffidenza rispetto a processi di omologazione, capaci di cancellare differenze e identità culturali. Ma, dall’altra parte, la convinzione che la nostra provincia, con la sua ricca autonomia, potesse bastare a se stessa, rappresentava un potenziale problema. In una generale sfiducia manifesta nei confronti di soggetti nazionali ed extranazionali, ne poteva risultare una logica che faceva cieco affidamento sul presupposto che bastasse acquisire più potere locale per difendersi e dialogare con l’esterno. L’idea che una simile concezione dell’autonomia (senza limitazioni e legacci da Roma, Bruxelles, o da altri centri di potere) potesse misurarsi con i futuri nuovi equilibri di mercato e sociali, restava una questione aperta.

Nessuno certo si aspettava che in Alto Adige/Südtirol da un momento all’altro si sarebbero prodotti cambiamenti epocali. Non sarebbe crollato qui da noi alcun secondo muro di Berlino. Ma l’accelerazione dovuta ai processi di integrazione economica, alle esigenze della concorrenza, a tutti i fenomeni legati alla sfida europea e alla loro irruzione anche nella realtà di questa piccola provincia rischiava di mettere in crisi il modello Alto Adige (Eurac Research 2002). Quanto meno essa spingeva verso un adeguamento strategico del modello tradizionale, correggendone eventuali elementi di arretratezza. In particolare, nella bilancia tra conservazione e innovazione cominciava a pesare di più la seconda: “Sarà necessario quindi motivare le imprese e soprattutto le persone per renderle più disponibili alle innovazioni, per introdurle alle nuove tecnologie, per renderle consapevoli della necessità di qualificazione e riqualificazione professionale, evitando che si abbandonino a sicurezze ingannevoli. Qualificazione e mobilità del fattore umano costituiscono pertanto il punto di partenza per tutte le strategie di innovazione” (Lerop 1995, pp. 7–8).

“Innovare” era uno dei predicati chiave. Un aspetto che riguardava l’innovazione, era la “modernizzazione”, un processo che non investiva solo l’economia. Portava inevitabilmente con sé, tra l’altro, problemi di riassetto degli equilibri tra pubblico e privato e tra politica e amministrazione. La modernizzazione, come l’Europa, era un treno su cui saltare a tutti i costi; non agitava più in Alto Adige/Südtirol gli spauracchi della politica nazionalista e non barricava più l’interesse e la solidarietà del gruppo etnico. Apriva semmai una nuova dialettica degli interessi, in cui anche la dominante etnica faceva fatica a recitare un ruolo da prima attrice. La questione investì l’Alto Adige/Südtirol nel momento in cui più forte era la tendenza a un accentramento di poteri nelle mani della Provincia autonoma di Bolzano. Modernizzazione e provincializzazione furono aspetti strettamente correlati tra loro.

Il rafforzamento del ruolo della Provincia si accompagnava con il bisogno di mantenere snella, efficiente e razionale la gestione della cosa pubblica (difendersi dalla concorrenza era ormai un problema tanto del privato, quanto del pubblico). Nel decennio 1980-1989 l’occupazione nel pubblico impiego era cresciuta più che in altri settori (mediamente dell’1,7 per cento contro lo 0,8 del totale degli occupati) e, guardando al futuro, doveva essere impedita “un’ulteriore crescita per evitare una quota sproporzionata di dipendenti pubblici” (Lerop 1995, p. 78). La Provincia aveva già iniziato a operare, nella gestione dell’apparato, delle scelte dettate da criteri di maggiore risparmio e di maggiore chiarezza rispetto ai compiti propri della sfera politica e a quelli della sfera che competeva all’amministrazione. Così, almeno sulla carta, il senso della riforma dell’amministrazione provinciale (LG Nr. 10/1992). Ci si attrezzava per introdurre criteri manageriali alla sua gestione, distinguendo funzioni amministrative e funzioni politiche. Un’esigenza, tra le altre, era quella di rendere la cosa pubblica un servizio dalla parte dei cittadini. Eurac Research (Accademia Europea all’epoca) su incarico della Giunta elaborò un progetto per la creazione di una scuola superiore di amministrazione per profili professionali amministrativi (IV, VI e VII livello) più dei corsi di management per direttori di ufficio e di ripartizione. Una scuola che avrebbe dovuto diffondere “una cultura nuova nella gestione di strutture pubbliche”: flessibilità, efficienza e zelo. “Solo in secondo luogo, i nuovi dirigenti fungono da esecutori di leggi e regolamenti” (LG 3/95). L’attenzione rivolta alla riforma della pubblica amministrazione rimandava a un ruolo assolutamente centrale che questa poteva giocare in termini di formazione e creazione di una nuova classe dirigente, capace di guidare e assecondare il processo di modernizzazione avviato. Un primo bilancio sull’andamento di questo processo, tracciato da Werner Stuflesser nel n. 12 (sett.-dic. 1997) della rivista di Eurac Research (Stuflesser 1997), metteva in luce l’estrema vischiosità del rapporto tra politica e amministrazione, individuando proprio qui l’anello debole della riforma.

I rischi di un’economia ingessata e alimentata dal denaro pubblico, leggi Provincia, erano un altro anello debole del sistema. Ci si orientava così verso un mix tra forme di “statalismo provinciale” – corretto da un auspicabile spirito di managerialità che comunque avrebbe dovuto fare i conti con il crescente apparato burocratico della Provincia e con le sue resistenti interferenze politiche – e libera iniziativa. Quest’ultima, rispondendo alle leggi di mercato, non doveva avere però le mani troppo legate. Si trattava di interessi difficilmente conciliabili tra loro e non è un caso se, in quei primi anni ‘90, si facesse tanto uso del termine Partnerschaft. Il crescente peso assegnato al settore privato, considerato come elemento strategico per affrontare le future sfide, apriva anche future incognite rispetto al grado di compatibilità tra sfruttamento del territorio e le sue risorse ambientali. Non era fuori luogo ipotizzare che una tendenza verso spinte deregolative sul piano delle politiche territoriali potesse rischiare di mettere in ginocchio un sistema come il nostro (Eurac Research 2002), che si era retto e sviluppato grazie anche a una rigorosa, ancorché politica, conservazione del territorio.

NEL TERRENO VERGINE DELLA RICERCA
E DELL’ACCADEMIA

La strada della modernizzazione chiedeva di abbandonare le logiche di un’economia troppo assistita insieme a una politica delle incentivazioni eccessivamente lassista, per puntare a superare le deficienze dell’apparato economico altoatesino dovute a insufficiente formazione e aggiornamento professionale di imprenditori e collaboratori nonché limitate attività innovative. La formazione, l’aggiornamento, il trasferimento tecnologico, la ricerca, diventavano parole chiave per declinare i caratteri di un cambiamento in atto che non investiva unicamente l’industria. In gioco vi era la possibilità o meno che il sistema Alto Adige potesse inserirsi nella dimensione europea delle traiettorie complessive dello sviluppo: “L’Alto Adige intende partecipare attivamente allo sviluppo dell’Europa, sia per quanto riguarda l’aspetto economico che quello sociale e culturale. (...) La scienza e la ricerca sono, al giorno d’oggi, determinanti per l’efficienza economica e il benessere materiale di un paese. Sono investimenti di idee a lungo termine” (Lerop 1995, pp. 200–201).

La ricerca scientifica e la formazione universitaria, divenute irrinunciabili per una provincia che rivendicava una propria autonomia non solo in campo politico, ma anche economico, sociale e culturale, entravano a far parte del “programma di istruzione 2000”. Nell’Alto Adige/Südtirol, alle soglie del XXI secolo, cadevano così le resistenze che nei decenni precedenti avevano bloccato la creazione di strutture universitarie.

Rispetto alle regioni confinanti al di qua e al di là del Brennero, la provincia di Bolzano presentava una quota di laureati piuttosto bassa (2,1%) di fronte a una domanda che sarebbe cresciuta in tutti i settori, alla luce dei trend che avrebbero caratterizzato il decennio a venire: internazionalizzazione dell’economia e aumento della concorrenza; alta qualificazione, specializzazione e padronanza delle nuove tecnologie dell’informazione nel mondo del lavoro; l’acutizzarsi delle problematiche ambientali ed energetiche. Anche sul piano della ricerca a livello postuniversitario l’Alto Adige/Südtirol aveva deciso di colmare almeno in parte il gap, istituendo l’Accademia Europea, oggi Eurac Research (1992), nata per dotare la provincia di Bolzano degli strumenti necessari per non “perdere il treno” della nuova società della conoscenza (Stuflesser 1995, p. 1). L’istituto avrebbe operato nel campo della specializzazione e della ricerca applicata alle problematiche locali con quattro indirizzi fondamentali: lingua e diritto, ecologia alpina, autonomia e minoranze, formazione manager. Inoltre, avrebbe svolto il ruolo di incubatrice per la nascita in Alto Adige/Südtirol di strutture universitarie. Si trattava di un’istituzione pensata sul modello della Max­Plank-Gesellschaft germanica per quanto riguarda l’indirizzo della ricerca applicata e dell’ITC (Istituto trentino di cultura), voluto da Bruno Kessler nel 1962 per favorire la crescita culturale e scientifica in Trentino nonché la nascita dell’Istituto superiore di scienze sociali, divenuto successivamente Libera Università degli Studi di Trento.

Dentro a un disegno di rilancio del sistema Alto Adige/Südtirol tra luci e ombre, l’innovazione, la ricerca scientifica e la formazione superiore costituivano aspetti strategici per governare il futuro. Era un terreno nuovo e vergine per una cultura e una mentalità locali cresciute nei rassicuranti mondi separati delle identità esclusive, eredi di una tradizione secolare di scienza schierata al servizio della politica fin dall’età dei nazionalismi e lontane dall’accademia, dalla prassi del libero confronto scientifico e dall’apertura propria dei metodi della ricerca. Ad avviare una prima importante riflessione critica sui limiti del localismo, che aveva a lungo connotato la società altoatesina nelle sue diverse declinazioni (politica, economica, culturale), fu in quegli anni una cerchia di giovani studiosi altoatesini di lingua tedesca, italiana e ladina, che si raccolse nell’associazione interetnica “Arbeitsgruppe Regionalgeschichte/Gruppo di ricerca per la Storia regionale” (ARG/GRS) (Mezzalira 1995). Formatisi in discipline storiche nelle università italiane, austriache e germaniche erano portatori di una nuova tensione culturale, pronta a cogliere alcuni dei nodi della complessa realtà locale e a proiettarli in più ampi quadri di riferimento. Si irrobustiva in tal modo l’interesse per gli studi storici locali, ridotti a terreno di controversia e strumenti di rafforzamento identitario, e maturava una sensibilità crescente verso gli impor­tanti compiti cui la storia era chiamata, in una terra in cui si incontravano culture, mentalità, tradizioni diverse e che guardava all’Europa. Si trattava di fecondi spazi di indagine che si aprivano, una volta lasciato alle proprie spalle l’eccessivo provincialismo che caratterizzava gran parte della produzione storiografica e che risentiva del forte influsso della Landesgeschichte. Per i giovani studiosi si trattava di richiamare la centralità di un fare storia attento al complesso sviluppo di una “regione” che disegnava i propri confini sull’altrove dalle polemiche etniche e dalla scienza piegata all’ideologia. L’entusiasmo e la convinzione che fosse possibile imprimere una svolta al modo di fare storia in Alto Adige e che più convincenti panoramiche interpretative potessero accompagnare il processo di maturazione di un’identità non più separata, ma condivisa e aperta, furono le spinte determinanti per la nascita dell’ARG/GRS. Il gruppo, costituitosi in associazione culturale nella primavera del 1991, definiva così i suoi scopi nell’art. 2 del proprio statuto: “a) sviluppo di un piano di ricerca a lungo termine per la storia regionale del Tirolo storico; b) applicazione dei più nuovi strumenti e approcci di ricerca alla storia regionale; c) stimoli alla collaborazione tra storici ed esperti di discipline collaterali; d) presentazione di progetti di ricerca di storia regionale ad istituzioni pubbliche e private; e) pubblicazione di lavori di ricerca di storia regionale; f) organizzazione o collaborazione a convegni; g) attività per pubblicizzare le finalità della “storia regionale”; h) istituzione di durature strutture di ricerca sotto la forma di un Istituto di ricerca di storia regionale”. La diversità degli interessi (dall’archeologia alla preistoria, dalla storia antica a quella moderna, dalla storia contemporanea all’etnografia), dei singoli percorsi culturali e della lingua, che contraddistingueva l’esperienza dell’ARG/GRS, evidenziava il bisogno avvertito dagli studiosi di ritagliarsi un luogo di elaborazione e circolazione del sapere storico emancipato dal frammentarismo della storia locale. Essi denunciavano parallelamente un profondo deficit della ricerca al quale cercavano di reagire impegnandosi a “professionalizzare” lo studio della storia e costruire le premesse per la nascita di isti­tuzioni che ne garantissero continuità e qualità scientifica. Il loro fu un contributo anticipatore alla costruzione nell’Alto Adige/Südtirol di un retroterra culturale aperto alla conoscenza e alla complessità, così come si apprestava a fare con ben altri mezzi a disposizione l’Eurac Research di Bolzano.


Abstract

At the turn of the last century, the fall of the Berlin Wall, the Europe of the single currency, globalization, migration, and technological innovation were already phenomena of far-reaching impact both on a global and regional scale. After the solution of the South Tyrolean dispute (1992), autonomy and the region’s entire system had to face new challenges. Modernization and dynamization of the local economy and development, and the need to meet the standards of innovation and competition on several levels, were priorities and goals for the Province of Bolzano by the end of the 20th century. Education, technology transfer and research became key words in describing the characteristics of the change underway which did not only affect industry. What was at stake was whether the South Tyrolean system could insert itself into Europe’s overall development trends. In the midst of the light and shade of a plan to relaunch the South Tyrolean system, innovation, scientific research and higher education were strategic aspects for governing the future. This was new and untouched ground for a local culture and a mindset that had previously grown up far from academia, the practice of free scientific debate and from the openness of research methods.

BIBLIOGRAFIA

  • Coppola, Gauro & Schiera, Pierangelo (a cura di) (1991). Lo spazio alpino: area di civiltà, regione cerniera. Napoli: Gisem, Liguori Editore.

  • Eurac Research, Area scientifica Ambiente alpino (a cura di) (2002). Il “modello sudtirolese”: fattori di successo e di criticità. Bolzano: Edition Raetia.

  • Mezzalira, Giorgio (1995). Geschichte und Region/Storia e regione”. Un passo oltre la storia della piccola patria sudtirolese. In: Memoria e ricerca. Rivista di storia contemporanea 1/6,
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  • Stuflesser, Werner (1995). Gli inizi di una cultura accademica in Alto Adige. In: Academia 2,
    pp. 1–3.

  • Stuflesser, Werner (1997). Südtirols Landesverwaltung und New Public Management. In:
    Academia 12, pp. 1–4.

  • Diamanti, Ilvo (a cura di) (1997). Il Nordest come processo e come progetto. Torino: Fonda­zione Giovanni Agnelli.


1 Architetto Carlo Azzolini, libero professionista, Bolzano; architetto Ernst Mier, direttore dell’ufficio piano territoriale provinciale; Fritz Schmidl, direttore della ripartizione artigianato, industria, commercio e turismo; Adolf Spitaler, direttore della Ripartizione programmazione economica, coordinamento territoriale ed edilizia economica popolare, ambiente e trasporti; Werner Stuflesser, direttore dell’Istituto provinciale di statistica (Astat); Sebastian Unterberger, Ufficio della programmazione economica. La consulenza scientifica era stata affidata a Christoph Pan dell’Istituto economico e sociale sudtirolese.