Rimpatrio volontario assistito e reintegrazione: soluzione o complicazione per i migranti di ritorno?
I policymakers europei lo presentano come una soluzione sostenibile al problema della migrazione illegalizzata. Tuttavia, la ricerca critica ha rivelato i numerosi limiti del cosiddetto rimpatrio volontario assistito e reintegrazione. Questo articolo guarda a uno di questi limiti: il potenziale per lo sfruttamento neocoloniale dei migranti di ritorno coinvolti in attività dell’Unione Europea per scoraggiare la migrazione dall’Africa.
Cura e controllo nel rimpatrio volontario assistito
Dalla scrivania dell’ufficio della sua associazione, Bobo ripensa a tutto quello che l’ha portato lì. 8 anni prima, un visto per Taiwan rifiutato quando si trovava già in Nigeria lo porta a decidere di attraversare il Niger verso la Libia. Una volta lì, ha a malapena il tempo di raggiungere i suoi contatti in loco che viene catturato, assieme a numerosi altri, da un gruppo di ribelli e portato in prigione. Qui trascorre 4 lunghi mesi subendo ogni tipo di vessazione, incluso un pestaggio che gli impedisce per qualche tempo di camminare. Numerosi altri gambiani risiedono nello stesso centro. Discutendo a lungo, Bobo e i suoi connazionali maturano l’idea di creare un’associazione che avrebbe scoraggiato altri gambiani dal prendere la via irregolare verso l’Europa e li avrebbe incoraggiati a fare del proprio meglio per farcela dove sono. Nel frattempo, delle organizzazioni internazionali visitano la prigione offrendo la possibilità ai detenuti di tornare a casa con il cosiddetto rimpatrio volontario assistito. Alla luce delle promesse di queste organizzazioni di supporto alla reintegrazione una volta rientrati, delle continue vessazioni subite e della costituzione di un governo democratico in Gambia dopo più di 20 anni di regime, Bobo e i suoi compagni accettano il ritorno.
Il rimpatrio volontario assistito (AVRR l’abbreviazione inglese) è una politica di ritorno che finanzia il rientro del beneficiario e, in alcuni casi, gli offre delle sessioni di accompagnamento psicosociale e risorse da utilizzare per cominciare un progetto di reintegrazione nel paese di origine. La prima parte della storia di Bobo mette in luce un primo, chiaro, limite della narrativa di questa misura: la volontarietà. In assenza di vessazioni durante la detenzione, un cambiamento di passo in Gambia e le promesse di assistenza dopo il ritorno, Bobo avrebbe continuato il suo piano di migrazione verso l’Europa. Ciò significa che l’AVRR è incentrato sull’attribuzione di cura, sottoforma di assistenza per scappare a una situazione di vulnerabilità o criminalizzazione, ma con l’intento di controllare la migrazione indesiderata di una determinata popolazione. In ogni caso, è di interesse per le autorità europee continuare a sottolineare la volontarietà dell’AVRR perchè le deportazioni sono più politicamente problematiche e costose.
La frattura tra la narrativa della reintegrazione sostenibile e le sfide del rientro
Una volta rientrato, Bobo si rivolge all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per ricevere il suo pacchetto di reintegrazione. Dopo una serie di incontri con lo staff di OIM, decide di unire le forze con due altri compagni e creare un piccolo business di raccolta rifiuti. Difficoltà nell’organizzare il business senza un’adeguata formazione e con il bagaglio di traumi dalla migrazione così come gli scarsi pagamenti ricevuti dai clienti, portano Bobo e i suoi colleghi, però, ad abbandonare il progetto di lì a poco. Questa è la sorte di tutti i migranti di ritorno assistiti coinvolti dall’OIM nella sua campagna di sensibilizzazione contro la migrazione irregolare chiamata Migrants as Messengers.
In questa seconda parte della storia di Bobo emerge un’altra problematica della narrazione europea sul rimpatrio assistito, quella relativa alla cosiddetta reintegrazione sostenibile. Questo obiettivo di policy prevede che i migranti di ritorno utilizzino la loro assistenza al rimpatrio per progetti che garantiscano il loro reinserimento socio-economico nel paese d’origine. L’obiettivo ultimo, secondo le autorità europee, è evitare che riemigrino. L’assistenza alla reintegrazione, però, nel migliore dei casi ammonta a poche migliaia di euro. I migranti di ritorno fanno generalmente fatica a utilizzare queste risorse per far funzionare piccoli business in contesti con difficoltà infrastrutturale, politica ed economica, senza le adeguate competenze imprenditoriali, ancora scossi dalle esperienze traumatiche vissute durante la migrazione e con richieste di supporto concreto da amici e parenti a cui far fronte. La conclusione è che la promessa di una reintegrazione agevole e assistita sfuma in fretta, a differenza di ciò che lasciano trasparire le ‘success stories’ che organizzazioni come l’OIM pubblicizzano regolarmente. Questa situazione rende i migranti di ritorno che faticano a reintegrarsi dei partecipanti perfetti per tutte le attività organizzate da organizzazioni internazionali con fondi europei che offrono piccoli rimborsi, incluse le campagne di sensibilizzazione contro la migrazione irregolare.
Il paternalismo evasivo dell’OIM
Bobo e i suoi compagni, quelli dell’associazione creata nella prigione libica, si trovano all’esterno del loro piccolo ufficio e discutono animatamente. Hanno appena scoperto che l’OIM aveva chiesto a un azienda multimediale di editare il film che loro avevano realizzato sull’esperienza di reintegrazione di una donna vittima di tratta.. Perchè coinvolgerci in numerosi training sul videomaking e l’editing se, quando c’è da pagare, l’OIM si rivolge a soggetti terzi per lavorare sulle nostre stesse idee di sensibilizzazione? Si chiedono Bobo e i suoi compagni.
Il cosiddetto peer-to-peer awareness raising dipende dal coinvolgimento di migranti di ritorno che fanno sensibilizzazione sulla migrazione irregolare nelle loro comunità di origine. Questi sensibilizzatori sono categoricamente denominati volontari da organizzazioni come l’OIM, nonostante ricevano rimborsi spese considerevolmente più elevati di quanto un comune cittadino riesca a guadagnare in un giorno. Se paragonati agli stipendi dello staff effettivo di OIM che non ha ruoli fattivi nell’implementazione delle campagne, però, sono considerevolmente inferiori. Per di più, come nel caso di Bobo e dei suoi colleghi, maggiori risorse vengono destinati a soggetti terzi, le cui competenze professionali vengono giudicate degne di una reale compensazione. Tutti questi elementi configurano una situazione di paternalismo evasivo da parte di OIM: da un lato i migranti di ritorno sono considerati responsabili abbastanza per far funzionare la propria reintegrazione sulla base della limitata assistenza ricevuta, dall’altro le competenze che sviluppano nel contesto dei progetti europei non sono riconosciute come idonee per un riconoscimento professionale e finanziario adeguato.
Da migranti di ritorno a cooperanti: tra desiderio di sviluppo e colonialità
Il flashback è finito e, dalla sua scrivania, Bobo deve tornare alla realtà dei budget e rapporti da inviare alla ONG europea con cui la sua associazione ha una partnership. Con entusiasmo lui e i suoi colleghi si sono impegnati con questa ONG in un progetto volto a convincere la gioventù gambiana a darsi da fare nel proprio paese invece di migrare. I fondi, però, arrivano con una sfilza di richieste di monitoraggio e pianificazione in un linguaggio europeo di difficile comprensione per il mindset gambiano di migranti di ritorno che non sono formati alla cooperazione, ma hanno il solo obiettivo di fare qualcosa di positivo per le loro comunità e sostenersi a vicenda nel percorso tortuoso di reintegrazione.
Sebbene molta letteratura punti all’interesse per i fondi europei degli attori locali per giustificare il loro impegno contro la migrazione illegale dall’Africa, è la loro determinazione a migliorare il loro paese e salvare possibili vittime il motore principale di questa cooperazione. Questo spiega perchè questi attori locali, compresa l’associazione di Bobo, lavorano a stretto contatto con organizzazioni europee sull’obiettivo del ‘farcela qui’ invece di migrare. Tuttavia, la colonialità di questi progetti, imposta tramite i finanziamenti occidentali, costituisce un ostacolo per i partner africani. Inoltre, fa trasparire il carattere neocoloniale della governance europea della migrazione, con cui gli attori africani devono fare i conti sia come migranti che come partner locali.
Al netto della cosiddetta mobility injustice che richiede un ripensamento totale delle regole che governano la mobilità a livello globale, riconoscere e interrompere la colonialità della loro cooperazione – rispettando le modalità diverse in cui i partner africani interpretano la mobilità, il lavoro di comunità, il servizio pubblico, lo sviluppo, le relazioni interpersonali e così via – sarebbe già un importante passo avanti per le organizzazioni finanziate dall’Occidente verso una sostanziale, e non solo nominale, egalità nelle partnership intercontinetali sul tema della migrazione e oltre.
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