“Turubu scetiekitiovovo?”
L’assoluta incomprensione linguistica è oggi sempre più rara. Tra la conoscenza di lingue di grande diffusione come inglese e spagnolo e le sempre più performanti risorse tecnologiche per la traduzione, è improbabile ritrovarsi a lungo in condizioni di completo spaesamento a causa di una lingua sconosciuta. Questo mese “Ask a linguist” offre un consiglio di lettura per chi voglia calarsi nei panni di un sagace linguista, perso suo malgrado in un oceano di parole.
Capire e farsi capire è un processo faticoso che richiede pazienza, chiarimenti, ripetizioni e ridondanze. Ce ne accorgiamo ogni giorno non appena proviamo a comunicare con qualcuno, che sia una delle persone con cui viviamo o lavoriamo o chiunque ci rivolga la parola nel corso della giornata. Tuttavia, l’incomunicabilità assoluta, il muro insormontabile di una lingua inintelligibile è un evento sempre meno frequente in gran parte del mondo e, se proprio si verifica, è temporaneo. Chi ha viaggiato in posti con una lingua e soprattutto un alfabeto diversi dai propri, avrà forse vissuto l’esperienza di ritrovarsi, privo di guida o di interprete, in un autobus lanciato per le strade di una metropoli, senza sapersi orientare in nessun modo, senza capire i nomi delle fermate, senza avere risorse per comunicare con la gente locale. Anche in un caso simile, pronunciare il nome di un monumento o di una piazza, il tentativo di ricorrere a una lingua franca come l’inglese o di affidarsi ai numeri contando le fermate del mezzo, sarebbero valide strategie per orientarsi in un contesto linguisticamente amorfo per il turista. Oggi poi quest’eventualità di rimanere tagliati fuori dalla comunicazione è sempre più estesamente scongiurata e neutralizzata dalla traduzione automatica che sfrutta la pervasività e la portabilità dei dispositivi tecnologici e che si dimostra di anno in anno più accurata ed efficace, allargando il suo potenziale a lingue diverse.
Che cosa accadrebbe dunque se ci ritrovassimo soli in una città ignota, senza alcun modo di comprendere la lingua degli altri? Senza risorse traduttive, interpreti, connazionali a cui chiedere aiuto? Sprovvisti nella misura più totale di un sistema simbolico di riferimento? È quanto descritto in Epepe di Ferenc Karinthy (apparso nel 1970 e pubblicato in Italia da Adeplhi), che racconta la storia di Budai, professore di linguistica e poliglotta, il quale, atterrato per errore in un paese sconosciuto, si ritroverà nella surreale condizione di non riuscire a comunicare in nessun modo e darà fondo a tutto ciò che sa del funzionamento delle lingue per tornare a casa.
Epepe è un libro famoso, scritto da un autore che nel suo paese di origine, l’Ungheria, è assai noto per la sua produzione letteraria e drammaturgica e per essere stato un figlio d’arte (suo padre era infatti Frygies Karinthy celebre scrittore del primo Novecento e autore, tra gli altri, di un libro straordinario, Viaggio intorno al mio cervello, molto amato da Oliver Sacks, che ne curò l’introduzione). Ferenc fu anche un linguista e chi ama le lingue non potrà non ammirare i metodi e i ragionamenti messi in funzione da Budai per svelare i meccanismi dell’idioma impenetrabile con cui ha a che fare.
Epepe è un “libro strano” per riprendere il giudizio che ne dà Emmanuel Carrère nella prefazione. Avvince per la storia, per il senso di sfida continua che spinge il lettore ad andare avanti per capire come (e se) la spunterà il protagonista e allo stesso tempo è spiazzante e imprevedibile, superando i labirinti kafkiani e avvicinandosi ai territori caratteristici delle strange stories di maestri della letteratura weird come Robert Aickman. Pur giocando su un’idea spinta oltre i limiti del verosimile già all’epoca in cui il testo fu concepito, Epepe racconta degli aspetti molto contemporanei: la sovrappopolazione urbana, in cui l’individuo è schiacciato tra la frenesia del lavoro e l’indifferenza per il prossimo, l’allontanamento dalla natura, la solitudine dei sentimenti, la ribellione politica. Su tutti spicca il tema dei limiti del linguaggio, di quali siano le possibilità dell’essere umano e le rappresentazioni del Mondo senza di esso. Che cosa succede quando il linguaggio non è disponibile? Quando il meccanismo si inceppa? Con che cosa possiamo sostituirlo? Domande alle quali il romanzo non dà mai risposte chiare e definitive, ma che rispetto alla retorica contemporanea, spesso stucchevole, del “potere delle parole” e del linguaggio come creatore di realtà, ci ricordano come l’assurdità esistenziale sia sempre in agguato, in barba a ogni pretesa di ordine e di senso.
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