Emergenza sanitaria e libertà fondamentali: facciamo il punto
Nel periodo di emergenza sanitaria conseguente all’epidemia di Covid-19, le società di stampo liberale si sono trovate a sperimentare rilevanti compressioni delle libertà personali garantite dalla Costituzione. In Italia, a partire dal 31 gennaio 2020, data della dichiarazione dello stato di emergenza, abbiamo assistito alla limitazione di diverse libertà costituzionali: dalla libertà di movimento, alla libertà di impresa, fino alla libertà religiosa e di riunione. Oggi, ponendo fine al lockdown, ci accingiamo ad una graduale riespansione di molte delle libertà precedentemente compresse: i tempi sono maturi per verificare in che modo queste limitazioni sono state attuate e come il nostro ordinamento ha reagito a un’indiscutibile quanto inedita situazione di emergenza.
La riserva di legge e il dibattito sui D.p.c.m.
È la stessa Carta fondamentale a prevedere la limitazione delle libertà che al contempo garantisce, ma ciò a condizione che vengano rispettati specifici presupposti formali e sostanziali. Dal punto di vista formale, la Costituzione prevede che le libertà fondamentali da essa sancite possano essere limitate esclusivamente ricorrendo allo strumento normativo di rango primario, ovvero tramite l’emanazione di una legge o, quanto meno, di un atto avente forza di legge.
A riguardo, diverse voci hanno sollevato perplessità circa la legittimità dello strumento utilizzato dal Governo fin dalla primissima fase di gestione dell’emergenza, i D.p.c.m (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri). Si tratta di atti amministrativi appartenenti alla categoria delle ordinanze contingibili e urgenti in materia di protezione civile, ai quali l’ordinamento consente eccezionalmente di derogare a disposizioni di legge, restando comunque soggetti al rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico: in primis ai principi costituzionali e di diritto comunitario.
La previsione di una riserva di legge è intrinsecamente legata al principio di legalità, pilastro dello stato di diritto, e non si risolve in una questione procedurale fine a sé stessa. Il procedimento legislativo ha infatti un significato pregnante, perché comporta che decisioni che incidono su interessi privati di rilievo costituzionale debbano essere approvate dall’organo democratico per eccellenza, il Parlamento, nella dialettica tra le forze di maggioranza e le minoranze.
Alla luce di ciò, il fatto che i D.p.c.m. incidano su materie coperte da riserva assoluta di legge è stato ed è tuttora oggetto di dibattito. Ciò in quanto è discussa a sua volta la legittimità del decreto-legge a fondamento dell’adozione dei primi decreti. Infatti, il d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020, oggi convertito in legge, recava un elenco esemplificativo di misure per contrastare l’emergenza sanitaria, accompagnate da una clausola aperta che, genericamente, consentiva l’adozione di “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia”. Una sorta di delega in bianco, in violazione del principio di tipicità, che, seppur mitigato in situazioni di emergenza, rimane comunque presupposto imprescindibile per l’adozione delle ordinanze suddette. Mancava poi una specifica limitazione temporale e territoriale delle misure eventualmente adottate: non era infatti prevista l’estensione delle stesse all’intero territorio nazionale (poi attuata), ma solo l’individuazione di “zone rosse” e l’applicazione delle misure su base locale.
Il d.l. 19 del 25 marzo 2020: il ruolo degli enti territoriali
L’asserito contrasto del d.l. n. 6 del 2020 con l’ordinamento pare oggi (secondo alcuni solo parzialmente) sanato dall’emanazione del Decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020 recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, con il quale si è provveduto a riordinare, in un elenco tassativo, le misure fino a quel momento adottate e a introdurne di nuove su base nazionale. Tale decreto-legge ha specificamente introdotto, nelle more di adozione dei DPCM, la facoltà per le regioni di adottare misure più restrittive nelle materie di loro competenza, nonché per i Sindaci di adottare ordinanze contingibili e urgenti, con gli stessi limiti oggettivi delle misure regionali, e purché non in contrasto con le misure statali.
Nonostante tale tentativo di sistematizzazione, l’adozione di atti normativi e amministrativi da parte del Governo continua a tenere un ritmo del quale il Parlamento non può, inevitabilmente, reggere il passo. A tale ipertrofia di atti governativi si somma la proliferazione di ordinanze regionali e comunali, che si sono man mano sovrapposte alla normativa nazionale. Tale groviglio di fonti ha finito per creare non poca confusione sulla normativa di volta in volta applicabile, tra più atti spesso in contrasto tra loro. A volte, peraltro, interventi a scopo chiarificatore hanno generato ulteriori fraintendimenti: è il caso della circolare del 31 marzo diffusa dal Ministero dell’Interno al fine di precisare il concetto di “attività motoria”, includendo attività che presidenti di regione e sindaci hanno invece espressamente vietato o sottoposto a limiti più stringenti, come le passeggiate con i bambini, e invece escludendo attività sulle quali i sindaci sembravano aver lasciato un maggior margine, come l’attività sportiva individuale. Nella maggior parte dei contrasti verificatisi, si è rivelata necessaria una netta presa di posizione verbale da parte dei sindaci per chiarire quale fosse, in definitiva, la normativa applicabile nel proprio Comune.
Il bilanciamento dei diritti
Per quanto concerne poi il limite sostanziale, è doveroso premettere che le libertà costituzionali possono essere limitate esclusivamente per ragioni di tutela di beni ritenuti, dalla stessa Carta costituzionale, di interesse preminente. È il caso di salute e sicurezza pubblica, in nome dei quali possono essere previste limitazioni alla libertà di movimento (art. 16cost.) e ugualmente alla libertà di riunione (art. 17 Cost). A tal proposito, si evidenzia tuttavia che ciascuna limitazione di un diritto deve trovare adeguata giustificazione nel bilanciamento con altri diritti, operazione svolta secondo i criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Nella celebre sentenza ILVA, la Corte Costituzionale ha chiarito, che non esiste e non può esistere un diritto assoluto, perché «se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».
Se è vero, quindi, che il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, è un bene primario che non può essere sacrificato, è altrettanto vero che non esiste una gerarchia assoluta tra i diritti costituzionali e che il punto di equilibrio con altri interessi deve essere valutato volta per volta affinché non ne venga minato il nucleo essenziale. Pertanto, in un ordinamento democratico non sono ammissibili “diritti sospesi”, nemmeno a fronte di un bene primario come la salute pubblica.
La disciplina dello stato di emergenza
Autorevoli opinioni hanno rilevato l’assenza nel nostro ordinamento di un sistema di garanzie costituzionali adeguato a gestire le situazioni di emergenza. La nostra Costituzione, infatti, disciplina puntualmente solo lo stato di guerra (art. 78 Cost.), ma non lo stato di emergenza, che è invece normato da una fonte legislativa, la l. 225 del 1992 sulla Protezione civile. Non si tratta di una lacuna normativa, ma di una precisa scelta del Costituente. È vero, però, che l’attuale situazione ci esorta a rivalutare l’opportunità di escludere questa previsione, anche nell’ottica di garantire una maggiore rappresentatività (e conseguente democraticità) delle decisioni prese in stato di emergenza. Non si tratta solo di disciplinare il funzionamento del Parlamento a distanza, misura anch’essa essenziale, ma di ripensare i poteri, magari seguendo gli esempi di altri ordinamenti a noi vicini, come quello spagnolo e tedesco, nei quali è prevista la costituzione di una commissione parlamentare ad hoc, che prenda le funzioni del Parlamento.
La mancanza di una disciplina puntuale dello stato di emergenza, inoltre, può avere risvolti da non sottovalutare anche nella fase post-epidemia. Svincolate da un chiaro perimetro di riferimento, le disposizioni emergenziali, per natura straordinarie, rischiano di insinuarsi stabilmente nell’ordinamento, prolungando i loro effetti ben oltre la contingenza. In questo modo l’eccezionalità diverrebbe insidiosamente ordinaria, e il pieno godimento dei diritti inviolabili, principio fondamentale, degraderebbe a mera concessione del Governo (sia esso centrale o locale). Al fine di scongiurare tale scenario, si rivelerà ancora una volta fondamentale vagliare in concreto la legittimità delle misure restrittive in ogni fase dell’epidemia, ispirandosi ai suddetti criteri di proporzionalità e ragionevolezza, nonché rimanere vigili sulla loro eventuale permanenza quando la situazione in nome della quale sono state previste, come si auspica, volgerà al termine.
Il modello italiano: fondamenti e criticità
Allo stato attuale, ogni previsione sul post-epidemia rimane più che mai ipotetica. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo è, infatti, doppiamente inedita: la nostra Repubblica si è trovata a fronteggiare la prima epidemia della sua storia, al contempo fungendo da apripista per le altre democrazie occidentali. L’Italia ha quindi dovuto elaborare e proporre una propria strategia di lotta all’epidemia, mutuando dalle esperienze estere (prevalentemente asiatiche), le sole pratiche conformi al proprio ordinamento. A riguardo, è indubbio che il cosiddetto “modello Wuhan”, pur invocato per la sua efficacia, si basi su una dinamica potere-cittadino propria di uno stato totalitario, e che, pertanto, non possa essere integralmente riprodotto nella nostra democrazia. Ugualmente può dirsi per la limitazione della privacy attuata in Corea del Sud attraverso il controllo degli spostamenti tramite GPS, misura difficilmente replicabile in una società liberale, senza pervenire a un’indebita compressione di un diritto che oggi trova copertura a livello costituzionale ed europeo. Lo stesso Garante della protezione dei dati personali, in tempi non sospetti, aveva espresso fondate preoccupazioni a riguardo, auspicando che qualunque limitazione della privacy venisse posta in essere attraverso una precisa normativa, evitando iniziative “fai-da-te” nella raccolta dei dati.
In conclusione, risulta evidente che il contenimento dell’epidemia si trovi in potenziale contrasto con un fondamento della nostra democrazia: il principio personalistico sancito dall’art. 2 della Costituzione, chiave di volta del passaggio dal Fascismo alla Repubblica. Citando le parole della stessa Costituente esso rappresenta il <<riconoscimento dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato, il riconoscimento della socialità della persona, destinata a completarsi e a perfezionarsi mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale>>. Ed è proprio nella solidarietà che troviamo il pilastro del nostro ordinamento democratico nella situazione odierna, in cui il rispetto delle regole da parte di tutti ha un peso cruciale nell’evolversi dell’epidemia. Nonostante le incertezze iniziali, può dirsi che la risposta italiana sia stata, nel complesso, adeguata, non solo da parte delle istituzioni, ma anche e soprattutto da parte dei cittadini. È importante, tuttavia, tenere a mente che l’opinione pubblica non può e non dovrebbe mai sostituirsi alla Costituzione e che, per una sana ripartenza, è necessario prestare attenzione agli scricchiolii del nostro ordinamento.
Caterina Bortolaso è una giurista attivamente impegnata nella politica veronese. Si è laureata all’Università di Trento con una tesi in diritto costituzionale comparato, in seguito a diverse esperienze di studio e tirocinio all’estero. Dopo aver svolto il tirocinio abilitante presso il Tribunale di Verona si sta preparando per il concorso di magistratura, ma il coronavirus ha decisamente scombinato i suoi piani. |
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