Le mobilità del virus, delle persone e dei bit. Una riflessione sul turismo e oltre
La mobilità del virus ci ha reso immobili. Da stili di vita frenetici e giornate convulse, ci siamo ritrovati nella prigione silenziosa dell’immobilità. Improvvisamente ciò che era sinonimo di libertà, ciò che era un diritto, è diventato un segno di irresponsabilità, addirittura un reato. Tutto ciò è potuto accadere perché la nostra velocità di spostamento, unita alla velocità di trasmissione del virus, era letale per l’umanità. Così, non potendo fermare il virus, abbiamo dovuto fermare noi stessi. Come se una mobilità avesse avuto la priorità sull’altra. La salute pubblica ha insomma fortunatamente prevalso sull’interesse economico. La vita ha vinto sul denaro. Una scelta razionale e obbligata. Un nuovo ritmo di vita.
Le analisi epidemiologiche, come si può intuire, non sono lo scopo di questo articolo. Non si intende studiare gli effetti dell’immobilità sul famigerato “R0”, cioè il numero medio di infezioni prodotte da ciascun individuo ammalato di Covid-19. Nessuna valutazione sull’efficacia del lock down. Si vuole invece ragionare di mobilità (e d’immobilità) di persone, cose e – perché no – anche di virus.
Le mobilità
A questo proposito può essere d’aiuto il concetto delle mobilità (sì, al plurale), che il noto sociologo John Richard Urry ha discusso a partire dai primi anni 2000 e approfondito nel suo libro “Mobilities” (2007). Urry ritiene che “il movimento, il potenziale movimento e il movimento impedito siano tutti elementi costitutivi delle relazioni sociali, politiche ed economiche” (Urry, 2007, p. 43). Insomma, le nostre società, le nostre economie e i nostri ambienti si plasmano a seconda della velocità e del ritmo degli scambi. Non sono soltanto i confini a dettare legge, ma anche le mobilità. Ma cosa significa “le mobilità”? Urry sostiene che si possano individuare cinque tipi di mobilità: di cose, di persone, di idee, di informazioni, e infine di “bit”, cioè di informazioni virtuali. Delle epidemie non aveva ragionato, ma oggi potremmo dire che esiste anche una mobilità dei virus.
Ragionare su questi sei livelli di mobilità ci offre una potente chiave di lettura per la crisi in atto. Infatti, possiamo interpretare tutti i meccanismi regolatori (i decreti, gli accordi, le ordinanze) ma anche le scelte dei singoli individui come delle vere e proprie definizioni di priorità delle diverse forme di mobilità, con il fine ultimo di bloccare la mobilità del virus. Ed essendo che Covid-19 si trasmette maggiormente se le persone contagiate si muovono di più, per fermare il virus è stato necessario rallentare il movimento delle persone, visto che è stato impossibile individuare tempestivamente tutti i contagiati. L’immobilità delle persone è stata quindi una scelta necessaria. E anche il trasferimento di merci, il commercio, che si avvale del lavoro delle persone, ha dovuto rallentare insieme a tutti gli altri settori economici. Un cambio di ritmo, questo, definito individuando categorie di essenzialità. Selezionando, categorie ATECO alla mano, le attività lavorative essenziali in funzione dei beni di prima necessità (qui la lista delle categorie ritenute fondamentali in Italia in base al SPCM del 10 aprile 2020).
Un’alternativa alla definizione di priorità nella mobilità sembra tuttavia esserci. Si tratta di una identificazione più precisa della mobilità pericolosa o rischiosa, ovvero la mobilità di quei soggetti che, muovendosi, potrebbero facilmente trasmettere il virus o subirne conseguenze molto gravi. Non è la mobilità delle persone o delle merci in generale ad essere quindi fermata, ma quella dei soggetti affetti dal virus o ad alto rischio di sviluppare complicanze gravi a seguito di un contagio. Un simile approccio, che ricorda il tanto citato esempio della Corea del Sud, si dovrebbe avvalere di sistemi digitali, cioè della cosiddetta “contact tracing technology”. In poche parole, una tecnologia che si mette al servizio del cittadino per informarlo sulla prossimità di individui positivi al virus, o su eventuali contatti avuti con loro. Il recente annuncio della neonata collaborazione tra Google e Apple ha proprio questa finalità. D’altra parte, in questo globale lock down, la tecnologia e la virtualità, o in altre parole le mobilità di idee, di informazioni, e di dati sembrano esplodere, perché utili al controllo del virus, ma immuni alla sua trasmissione.
La realtà virtuale
Nel giro di poche settimane da quando il 10 marzo 2020 è stato annunciato il lock down, la virtualità ha trasformato la nostra realtà. Lezioni online, videochiamate, riunioni virtuali, webinars, pranzi virtuali, intrattenimento in diretta streaming. Ci siamo avventurati in una trasformazione forzata, abbiamo acquisito competenze per necessità, abbiamo convertito la mobilità fisica in mobilità virtuale attraverso la tecnologia. Abbiamo investito tempo per stabilire quale soluzione fosse più efficiente per quale scopo, abbiamo stabilito nuove forme di mobilità. Le piattaforme e i software a disposizione hanno dettato le loro leggi sul numero massimo di partecipanti, il grado di interazione, la possibilità di avere voce nel dialogo virtuale o l’obbligo di ascoltare senza replica. Così, nel caso dei corsi online con molti partecipanti, i docenti si “muovevano” verso le case degli alunni, ma gli alunni restavano in silenzio ad ascoltare. Oppure, in una generale confusione, si organizzavano chiamate collettive senza stabilire un codice di comportamento, per poi ritrovarsi a interagire nel caos. La mobilità virtuale, nello strutturarsi, ha sperimentato momenti di assoluta anarchia. E quali sono state le conseguenze negli spazi fisici a nostra disposizione? Una tra tutte il fatto che abbiamo vissuto un solo spazio, la nostra abitazione, con molteplici funzioni: i nostri salotti sono diventati uffici, palestre, laboratori creativi, discoteche in miniatura, mentre i nostri balconi si trasformavano in consolle da dj, in palchi, spiagge, a volte in semplici luoghi per una socialità tradizionale, ma “a distanza di sicurezza”. In questa metamorfosi continua dei nostri luoghi abbiamo ricreato il lavoro e l’intrattenimento, con tutte le limitazioni del caso. Ma una cosa non abbiamo saputo affatto ricreare: il viaggio.
Il turismo
Dopo le prenotazioni disdette, i voli cancellati, gli storni, i rimborsi, e la malinconia di non poter partire, non abbiamo trovato un surrogato del turismo a casa nostra. Come se, nel turismo, i bit difficilmente potessero sostituire persone e luoghi. Certo, sappiamo che sono immaginabili offerte turistiche virtuali – alcune sono già sul mercato, come https://www.virtualhelsinki.fi/ -, ma sicuramente non percepiamo il valore aggiunto di una vacanza virtuale, almeno non ancora. Purtroppo, non immaginiamo nemmeno una vacanza, ora che molti di noi non possono lavorare. Così si mette a nudo il turismo quale prodotto del nostro benessere, del nostro surplus di tempo e di reddito.
D’altra parte, è pur vero che, se anche si sviluppassero pacchetti turistici virtuali, questi manderebbero comunque in crisi il sistema turistico come è ora concepito. Il turismo virtuale non fa leva sulle strutture ricettive, ad esempio, ma in gran parte sulle attrazioni (ad esempio musei, monumenti, chiese). I modelli di business del turismo tradizionale, insomma, non avrebbero nulla a che fare con quelli del turismo virtuale. Nel turismo virtuale si potrebbe entrare in Cappella Sistina e salire in cima alla Tour Eiffel nel giro di una mezza giornata. Senza pernottare, senza viaggiare, senza assaporare ciò che sta attorno alla punta di diamante della nostra curiosità. Mancherebbe completamente tutta la dimensione dell’“errare”, che tanto fa parte del viaggio, verrebbe meno la casualità delle scoperte di un luogo e la sorpresa nelle relazioni con gli sconosciuti. Insomma, nel turismo la virtualità ha diversi limiti.
Così, rimane solo da interrogarsi sulla effettiva possibilità di ripresa, e sul modello di crescita turistica che si intenderà perseguire. Chi viaggerà? Come e dove vorrà e si potrà muovere? E con quale capacità di spesa e quali ambizioni? L’immobilità si trasformerà in ipermobilità non appena potremo viaggiare? Vorremo approfittare di più delle attività all’aria aperta, ora che per lunghe settimane ci sono state tolte? L’orgoglio nazionale e la minore capacità di spesa ci porteranno davvero a muoverci nel raggio di pochi chilometri? Come ci sentiremo negli aeroporti?
Difficile trovare risposte nel bel mezzo della pandemia. Da un lato, si intravede un’opportunità nel mercato dei “sopravvissuti”, cioè di coloro che, avendo superato indenni il Covid-19, probabilmente potranno rivivere la libera circolazione, almeno per qualche tempo. L’immunità al virus, si sa, non è ancora chiaro che scadenza abbia. Dall’altro, ci sarà il mercato dei “vicini di casa”, ovvero quello di un turismo domestico, capace di sfruttare le brevi distanze. Saranno queste le uniche distanze turistiche percorribili, soprattutto in un probabile scenario di libertà di circolazione nazionale, prima che internazionale. Il turismo, quindi, dovrà essere rapido a reagire individuando i soggetti mobili e i soggetti prossimi, facendo i conti con capacità di spesa ridotte, almeno nel breve periodo.
Anna Scuttari è Senior Researcher al Center for Advanced Studies di Eurac Research e professoressa di metodologie di ricerca empirica e turistica all’Università di Scienze Applicate di Monaco di Baviera. Il coronavirus l’ha resa una e-Prof. |
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