Placemaking: strumento di inclusione o gentrificazione?

Il placemaking, da pratica comunitaria a concetto onnipresente nella rigenerazione urbana, ha subito nel tempo una trasformazione semantica che ne ha ampliato e, in alcuni casi, reso ambiguo il significato. Questo testo ne traccia la genealogia, mettendo in luce le contraddizioni e le potenzialità di un processo che, per rimanere fedele alle sue origini, deve mantenere al centro la comunità e il diritto collettivo alla città.
Placemaking. Un termine che è diventato onnipresente, comparendo non solo nelle conferenze di urbanistica e nei workshop di pianificazione ma anche nel dibattito pubblico, spesso in associazione con il tema della rigenerazione dei luoghi. Ma cosa significa effettivamente “placemaking”? Si tratta semplicemente di progettare parchi e spazi pubblici o rappresenta qualcosa di più profondo?
Negli ultimi anni, il placemaking è stato celebrato come un potente strumento per la rivitalizzazione delle comunità, in particolare nel contesto della ripresa post-pandemica. Con le parole di Cara Courage, accademica esperta di placemaking, “il COVID-19 ha messo in evidenza quello che è davvero importante nel nostro vivere l’ambito pubblico: l’umano”.
Nato come risposta dal basso alle logiche top-down della pianificazione urbana, il termine placemaking racchiude approcci diversi, che spaziano dall’attivismo sociale alle strategie istituzionali di rebranding urbano.
La risonanza che il placemaking ha al momento, l’apparente presa emotiva che è in grado di creare e muovere potrebbe essere dovuta, dunque, a un crescente senso sociale di disconnessione, disconoscimento e alienazione dalla socialità nelle sue forme storiche e fondamentali. È, fondamentalmente, il desiderio di un luogo in cui esistere e appartenere che, quando funziona, può davvero creare luoghi di incontro e convivialità.
Tuttavia, il suo significato è cambiato in modo considerevole nel corso del tempo. Quello che è iniziato come un movimento dal basso e guidato dalla comunità, si è evoluto in uno slogan—utilizzato spesso in modo vago—per processi di rigenerazione urbana dagli intenti non sempre trasparenti.
Partendo dalle origini di questa pratica, questo blog traccia dunque la genealogia del placemaking, esplorandone poi lo scivolamento semantico che ha portato questo termine ad essere usato per una pletora di interventi tra loro molto diversi nelle motivazioni e negli esiti.
Genealogia: radici statunitensi e declinazioni italiane
La prima ad aprire la strada al placemaking è stata l’attivista e teorica urbana statunitense-canadese Jane Jacobs. Con il suo editoriale del 1958 “Downtown is for people”, Jacobs lamenta la pianificazione urbanistica modernista dell’epoca, che prioritizza sviluppi sterili e incentrati sulle automobili a scapito dei piccoli quartieri—e dei suoi abitanti—, riconosciuti invece come luoghi di incontro, scontro e vibrante vita quotidiana. Il placemaking si prefigura quindi fino dai suoi albori come protesta contro gli approcci top-down nella pianificazione urbana.
Il movimento si sviluppa e concentra poi attorno al Project for Public Space (PPS), fondato nel 1975 da Fred Kent nella città di New York e tuttora in attività. Il PPS, un’organizzazione senza scopo di lucro, nei suoi primi due decenni di esistenza concentra la sua attività sulla sistemazione degli spazi pubblici disfunzionali americani, sviluppando piani di gestione dei luoghi per ovviare alla mancanza di investimenti pubblici e contrastare i modelli di architettura ostile presente nei centri storici americani, ponendo ulteriore attenzione alla funzionalità sociale degli spazi pubblici.
Il placemaking, dunque, si consolida in un momento di agitazione e di effervescenza sociale, caratterizzato dai movimenti sociali urbani e dal basso, nel mezzo delle rivolte operaie e studentesche del 1968, anno in cui viene pubblicato il celebre volume di Henri Lefebvre “Diritto alla città”, da allora divenuto uno slogan popolare sia per movimenti sociali urbani che per molte iniziative di placemaking dal basso.
Da allora, tuttavia, il placemaking è arrivato a significare una pletora di pratiche, processi e principi diversi, adottati (e adattati) in diverse discipline, dalla psicologia all’architettura. Oggi sembra esserci una difficoltà nell’identificare chiaramente cosa sia il placemaking e, di conseguenza, che cosa implichino e chi beneficino davvero i processi ispirati a questo termine.
Ci troviamo di fronte a opzioni che spaziano dal “placemaking creativo” a quello “strategico” o “tattico”, in cui le coordinate di definizione del termine diventano nebulose e poco chiare. Un termine nato dall’attivismo, dal malcontento verso gli interventi urbani che procedono “dall'alto verso il basso” e non specifici al luogo, si è ora trasformato in un termine generico, utilizzato per descrivere sia progetti di rigenerazione urbana guidati da amministrazioni locali, come quelli portati avanti da magnati del mercato o iniziative dal basso.
Sulle molteplicità contenute all’interno dello stesso termine si interrogano Ellery e colleghɜ che nella loro ricerca tentano di definire in modo più chiaro e coeso che cosa sia il placemaking. Tramite l’analisi di 120 articoli, lɜ autorɜ arrivano alla conclusione che nonostante sia possibile identificare la creazione di spazi di qualità come uno scopo comune del placemaking, tutti gli articoli consultati utilizzano prospettive ed approcci differenti rendendo dunque impossibile delineare in modo più preciso cosa sia (o non sia) il placemaking.
Una definizione ampia e capace di mantenere al centro l’attenzione alle comunità che ha caratterizzato il placemaking degli albori è fornita da Cara Courage, curatrice di un volume collettaneo sul tema:“Il placemaking è un approccio e un insieme di strumenti che mettono la comunità in prima linea nel decidere l'aspetto e il funzionamento del proprio luogo. C'è un imperativo comunitario nel placemaking. (...) nel momento in cui si esclude la comunità dal processo di placemaking, sia come protagonista che come pari interlocutore, il processo non è più placemaking e il potenziale radicale di questo processo basato sul luogo viene completamente perso.” (2021)
“Il placemaking è un approccio e un insieme di strumenti che mettono la comunità in prima linea nel decidere l'aspetto e il funzionamento del proprio luogo. C'è un imperativo comunitario nel placemaking. (...) nel momento in cui si esclude la comunità dal processo di placemaking, sia come protagonista che come pari interlocutore, il processo non è più placemaking e il potenziale radicale di questo processo basato sul luogo viene completamente perso.”
Cara Courage
Nel contesto italiano emerge una simile attenzione alle pratiche e ai processi della ‘trasformazione degli spazi in luoghi’ animati da attori sociali, in cui gli spazi sono visti come entità geografiche, mentre i luoghi come entità socioculturali. Il placemaking è stato quindi interpretato come antidoto alla crescente polarizzazione sociale e politica delle comunità, che Venturi e Zandonai nominano in modo evocativo “comunità rancorose", che preferiscono investire il loro capitale di relazioni e fiducia internamente (bonding), e non per ampliare la propria connettività (bridging).
Il placemaking è anche visto come antitesi ad alcuni interventi di rigenerazione urbana che Tozzi (2023), parlando della città di Milano, definisce criticamente come tentativi di rebranding che finiscono per creare non tanto spazi di rappresentazione—dunque spazi ri-appropriati, vissuti, in uso—quanto più rappresentazione di spazi—in cui l’utilizzo è programmato e controllato. Quello che emerge dalle pagine di Tozzi è un sistema di rigenerazione urbana in cui riconoscibilità e esclusività diventano i concetti àncora di processi di rigenerazione urbana, in cui “le zone ricche diventano sempre più esclusive e escludenti (…) mentre quelle dove regna la mixité, dove convivono abitanti di diverso status sociale, rapidamente si omologano verso l’alto, diventando sempre meno ospitali e accessibili ai meno abbienti, fino ad espellerli”.
E quindi, chi si vuole includere nei progetti di placemaking? E come? Che siano chiamate diverse comunità, diversi pubblici, collettività, ecologie sociali, o in altri modi ancora, c’è una comprensione comune della pluralità che co-esiste ed abita la dimensione pubblica. Non solo, ma è anche presente l’idea che l’unico modo per cambiare le cose, creare appunto luoghi invece che spazi, sia partire da un lavoro collettivo dal basso (nelle parole di Ostanel e Cancellieri, ri-pubblicizzando i luoghi). Solo in questo modo si possono creare dei luoghi non esclusivi ed escludenti da una parte, ed evitare di farlo in modo solo performativo dall’altro.
Diversi autorɜ propongono strategie diverse, attribuendo definizioni che possono sembrare dissimili ma sono alla fine essenzialmente complementari: creare delle ‘immagini della città’ dal basso per fare in modo che questi luoghi, prima immaginati e poi creati, siano fruibili dai diversi pubblici che coesistono nella città. Un luogo, insomma, per le comunità dalla comunità.
Placemaking: oltre lo spazio, verso la comunità
Da questo breve compendio è quindi possibile identificare quelli che sono alcuni degli elementi chiave del placemaking. Che sia nelle sue accezioni più dal basso, come prefiguratosi nella sua versione originale, o in modalità più istituzionali, il placemaking ha come obbiettivo ultimo la risignificazione degli spazi pubblici volta alla restituzione di un luogo alle comunità. La dimensione sociale degli spazi pubblici è inoltre esemplificata dalla presenza di processi partecipativi decisionali, in cui sono le comunità stesse a decidere e confrontarsi sull’uso e le funzioni del luogo. Il placemaking si configura dunque come un processo in continua evoluzione, capace di adattarsi a contesti e istanze diverse, ma sempre legato alla necessità di creare spazi inclusivi e condivisi. Se da un lato il rischio di appropriazioni istituzionali e dinamiche escludenti rimane una sfida aperta, dall’altro il valore del placemaking risiede nella sua capacità di attivare percorsi partecipativi e di rafforzare il senso di appartenenza ai luoghi. Solo mantenendo viva la centralità delle comunità nei processi decisionali è possibile evitare che questa pratica si riduca a un mero strumento di marketing urbano e garantirne il potenziale trasformativo, capace di dare forma a spazi realmente vissuti, rappresentativi e accessibili a tuttɜ.

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