Le vittime di femminicidio in Italia: come la pandemia ha inasprito il fenomeno
Agitu Ideo Gudeta: un nome straniero, etiope per l’esattezza, un nome di donna. Un nome che risuonerà alle orecchie di molti non per quella che fu la sua storia purtroppo, ma per quella che è stata la sua morte.
Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre in valle dei Mocheni in Trentino, dove Agitu Ideo Gudeta aveva fondato l’azienda agricola “La capra felice”, si è consumato un atroce delitto: la donna è stata letteralmente presa a martellate sulla testa e successivamente violentata. L’assassino, Adams Suleiman, era un suo dipendente, un pastore con cui Agitu condivideva già un passato di collaborazione. Il movente sembrerebbe essere di tipo economico, un arretrato salariale. Quello di Adams Suleiman è un nome straniero, ghanese per l’esattezza, un nome di uomo. Due profili quindi che combaciano in molti dei loro aspetti sociodemografici: Agitu e Adams avevano rispettivamente 42 e 32 anni, entrambi appartenenti alla generazione Y, entrambi africani, entrambi emigrati ed entrambi pastori. Tuttavia, la prima dirigeva il caseificio mentre il secondo ne era un dipendente; la prima una donna, il secondo un uomo. E sono questi ultimi due connotati a fare di questo omicidio un femminicidio: Agitu è stata uccisa perché era un’imprenditrice donna.
Nel 2020 la quota di femminicidi avvenuti in un contesto familiare ha raggiunto il valore record dell’89 %. La pandemia da Covid-19, con il conseguente lockdown o altre misure di confinamento, ha purtroppo contribuito ad inasprire il problema.
Jessica Rosco
Agitu però non è la sola: secondo il rapporto Eures, nei primi 10 mesi del 2020 in Italia sono stati registrati circa 91 femminicidi, di cui 81 avvenuti all’interno del nucleo familiare. Un numero che fa rabbrividire soprattutto se si traspone in termini di frequenza: ogni 3 giorni in media una donna viene uccisa per il suo essere donna. Perché è questo che significa femminicidio: l’uccisione di una donna o di una ragazza per via del suo genere. Nella quasi totalità dei casi l’autore è un uomo, e molto spesso una figura vicina alla vittima, come il partner, un membro della famiglia o del vicinato.
Nel 2020 la quota di femminicidi avvenuti in un contesto familiare ha raggiunto il valore record dell’89%, superando così di 4,2 punti percentuali il dato registrato nello stesso periodo del 2019. La pandemia da Covid-19, con il conseguente lockdown o altre misure di confinamento, ha purtroppo contribuito ad inasprire il problema. La casa, la dimensione di sicurezza e fiducia per eccellenza, è diventata per molte donne una prigione dove i propri conviventi si sono trasformati in sadici carcerieri. Tant’è che in Italia, tra marzo e giugno, ovvero durante il lockdown totale, ben 21 delle 26 vittime di femminicidi avvenuti in un contesto familiare convivevano con il proprio assassino. Il femminicidio spesso è il culmine di un’escalation di violenza che nasce nella quotidianità delle mura domestiche. L’ Istat, raccogliendo i dati relativi alle chiamate valide verso il numero di pubblica utilità 1522 contro la violenza sulle donne e lo stalking, ha riscontrato che le richieste di aiuto da parte di vittime di violenza e testimoni di violenza sono notevolmente incrementate (+107%) rispetto al periodo corrispondente - tra marzo e ottobre - dell’anno precedente. Il lockdown sembra far tornare l’Italia indietro al 2013, anno in cui i numeri totali di vittime di violenza risultano essere abbastanza simili (10.801 nel 2013 vs 11.618 nel 2020).
Sebbene la propensione alla denuncia sembri essere aumentata negli anni, la violenza di genere rimane tuttora un fenomeno per gran parte sommerso, per cui è impossibile sapere con certezza se questo incremento nelle denunce sia davvero tale oppure sia dovuto ad un aumento degli episodi violenti. Molte donne infatti non denunciano e non proseguono per la strada giudiziaria. Tra i motivi principali, annoverati dalle sopravvissute stesse, vi è la paura di ripercussioni dirette oppure indirette (ad esempio sui propri figli), la paura dello stigma sociale e la mancanza di fiducia nelle istituzioni. A tal proposito, le misure preventive e di sostegno messe a disposizione dallo stato non incontrano spesso la soddisfazione delle sopravvissute (nel 2014 il 36% delle vittime dichiarava di non essere soddisfatta dell’operato delle forze dell’ordine).
Un confronto interessante è tra la propensione alla denuncia da parte delle donne italiane e di quelle straniere: a parità di consapevolezza del reato subito, quest’ultime denunciano di più. La spiegazione fornita è che le emigrate legalmente residenti sul suolo italiano spesso mancano di una rete di supporto informale fatta da amici e parenti, perciò si rivolgono più velocemente alle istituzioni in cerca di conforto, comprensione ed aiuto. E così aveva fatto anche Agitu che, poco prima di essere uccisa, aveva denunciato per stalking un vicino, il quale le aveva ripetutamente rivolto insulti razzisti e minacce.
Agitu si delinea come la vittima perfetta: una donna immigrata, di successo e con una laurea; ma Agitu era anche di più: era un’ambientalista, un’anti-specista e anticapitalista.
Jessica Rosco
Secondo l’analisi Istat del 2014, le donne straniere, con un alto titolo di studio e in carriera – come Agitu - risultano particolarmente vulnerabili: per loro è più frequente subire stalking, aggressioni fisiche e stupri, soprattutto se attuati da uomini diversi dal partner. Agitu si delinea quindi come la vittima perfetta: una donna immigrata, di successo e con una laurea; ma Agitu era anche di più: era un’ambientalista, un’anti-specista e anticapitalista. Fuggì dall’Etiopia 10 anni fa, in quanto perseguita per essersi attivamente impegnata nell’impedire il land grabbing, una pratica neocolonialista che prevede l’esproprio senza consenso di terreni da parte di altri Paesi o multinazionali. Rifugiatasi in Trentino, dove aveva precedentemente conseguito la laurea in Sociologia, aveva salvato una specie di capre dall’estinzione dando il via alla sua azienda agricola. Aveva già un punto vendita di formaggi in città, gli affari andavano bene, ed Agitu programmava di ampliare ulteriormente la sua attività. E proprio la mattina del 29 dicembre avrebbe dovuto incontrarsi con il geometra, ma Agitu non arrivò mai all’appuntamento.
La sua è la storia di una donna moderna, battagliera e intraprendente, dotata di uno spirito umanitario e idealista, che come tante altre è stata messa a tacere per aver sfidato la supremazia maschile con il suo semplice essere. Perché ciò che non viene sopportato, ciò che spinge alcuni uomini a commettere questi reati, è l’incapacità di accettare l’autoaffermazione della donna. Secoli di patriarcato e sessismo, che hanno dettato squilibri di potere tra i generi, sostenendo un’inerente e necessaria supremazia dell’uomo, hanno finito per legittimare sempre più la violenza contro le donne. La “crisi di identità maschile” è proprio frutto di questa cultura: quando l’uomo sente di non essere in controllo, ovvero non riesce ad affermare la sua superiorità sulla donna, potrebbe ricorrere all’esercizio della violenza per ristabilire il proprio ruolo. La perdita di controllo è una delle paure ancestrali dell’essere umano, ed accettare di non potere né dovere avere il controllo è un obiettivo molto difficile da raggiungere. La parità, dunque, così come l’assenza di violenza di genere, potrà pienamente realizzarsi soprattutto grazie ad un radicale mutamento culturale. Agitu era un’esponente di questo mutamento, un’empowered woman che si è sempre battuta per ottenere giustizia per sé e per gli altri. La sua è una storia di resistenza, che dovrebbe ispirare ogni donna.
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