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Perché provare dolore è indispensabile per la sopravvivenza? Perché in certi casi diventa cronico? E perché è così difficile tenerlo a bada anche se usiamo farmaci? Le risposte stanno nello studio di quello che succede nelle cellule che ci fanno provare dolore.
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Cosa è il dolore?
Secondo l’Associazione internazionale per lo studio del dolore (International Association for the Study of Pain, IASP) il dolore è un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno reale o potenziale a un tessuto, o comunque assomiglia a questa esperienza. Per danno a un tessuto si intendono ferite alla pelle, fratture alle ossa, ma anche infiammazioni di tessuti profondi, per esempio l’intestino. Il dolore è comunque un’esperienza soggettiva molto complessa che dipende non solo da fattori biologici, ma anche psicologici e sociali. Oltre al fatto di comunicare verbalmente che si prova dolore, ci sono molti altri comportamenti che esprimono sofferenza, per esempio le espressioni facciali, la paura di muoversi, l’isolamento sociale, il malessere o il malcontento generalizzato. Qualsiasi espressione di dolore da parte di un individuo va sempre rispettata, dato che per l’appunto è un’esperienza soggettiva, che può verificarsi anche se non c’è un danno effettivo al tessuto. In passato, le donne in particolare hanno sofferto perché il loro dolore non veniva riconosciuto. Questo è legato soprattutto al fatto che molte malattie del dolore sono esclusivamente femminili – come l’endometriosi – o comunque predominanti tra le donne – come l’osteoartrite. Vista la prevalenza di medici e ricercatori maschi fino a pochi decenni fa, queste malattie e soprattutto la percezione di dolore legata a esse venivano spesso sminuite.
"I nocicettori sono neuroni sensoriali capaci di captare gli stimoli dolorosi. Il nome deriva dal verbo latino nocere= far male."
Come viene prodotta la sensazione di dolore?
La percezione del dolore è paragonabile al funzionamento di un circuito elettrico: così come una lampadina si accende premendo l’interruttore, la sensazione di dolore, e le nostre conseguenti reazioni, si generano quando si attivano i nocicettori, particolari neuroni sensoriali capaci di captare gli stimoli dolorosi. Il loro nome non è casuale, deriva infatti dal verbo latino nocere= far male. Quando tocchiamo accidentalmente una spina, la puntura attiva i nocicettori nella pelle della mano. Come un interruttore, i nocicettori attivano un circuito di neuroni che arriva fino ai muscoli. In pochi millesimi di secondo si attiva una risposta che fa ritrarre la mano. Questo circuito è completamente indipendente dal cervello, i movimenti sono involontari e definiti come “un riflesso”. Con qualche millisecondo di ritardo lo stesso segnale arriva fino al cervello, dove si genera la sensazione di dolore e la consapevolezza di aver appena toccato qualcosa che punge.
Circuito del dolore
La spina del cactus attiva i nocicettori della pelle, speciali neuroni che inviano un segnale alla spina dorsale, attivando altri neuroni. Alcuni di questi neuroni portano il segnale verso la mano e la fanno allontanare con un movimento involontario (riflesso). Altri neuroni invece trasmettono il segnale al cervello dove viene elaborata la sensazione di dolore. Video: Eurac Research | Fabio Dalvit
Solo a livello cerebrale avviene l’elaborazione dello stimolo: capiamo da dove arriva, di che tipo è (caldo, freddo, bruciore, prurito ecc.) e quanto forte è. Inoltre, si crea una memoria dell’esperienza negativa che ci spinge a non ripeterla e a sviluppare una risposta emotiva, per esempio la paura delle piante con le spine. E la storia non finisce qui. Il cervello riesce a modificare la percezione del dolore attraverso altri neuroni che partono dal cervello e agiscono sul circuito: come una sorta di regolatore del volume aumentano o riducono l’intensità e la frequenza con cui il segnale di dolore arriva al cervello. Di fatto, gli antidepressivi sfruttano esattamente questo meccanismo: inibiscono l’attività del circuito che porta l’informazione dello stimolo doloroso al cervello e lo rendono quindi meno intenso.
I sensi non sono solo cinque
A differenza di quanto abbiamo imparato a scuola, oltre ai cinque sensi tradizionali (vista, olfatto, tatto, udito e gusto) il corpo umano è in grado di percepire e processare anche altri tipi di stimoli. Inconsciamente riusciamo a “sentire” se varia la pressione del sangue e a stabilizzarla; percepiamo l’orientamento e la posizione del nostro corpo e capiamo se siamo sdraiati, in piedi o capovolti. Se la temperatura del nostro corpo cambia o ci fratturiamo un osso, proviamo delle sensazioni che ci restituiscono delle informazioni sul mondo circostante o su cosa sta accadendo all’interno del nostro corpo. Il nostro corpo riesce a percepire stimoli di diversa natura grazie a dei neuroni detti “sensoriali”: cellule altamente specializzate per riconoscere varie tipologie di stimoli e che funzionano come dei veri e propri sensori. Nell’occhio per esempio sono presenti dei recettori in grado di reagire agli stimoli luminosi. La luce riesce ad attivare dei fotorecettori che trasmettono informazioni al cervello per ricreare un’immagine del mondo esterno. Un’altra classe di neuroni sensoriali, che sono invece coinvolti nella percezione del dolore, vengono chiamati “nocicettori” – etimologicamente è un matrimonio tra la parola latina noceō e l’abbreviazione della parola latina receptor. noceō: nuoccio, ferisco, danneggio receptor (recettore): struttura specializzata che risponde a uno stimolo sensoriale.
A cosa serve provare il dolore?
Tutti sogniamo una vita priva di dolore, ma in realtà questa sensazione ha un ruolo importante per la sopravvivenza. Il dolore è necessario per insegnarci come muoverci nell’ambiente che ci circonda e quali situazioni pericolose evitare. Per esempio, quando da piccoli ci scottiamo la mano su una superfice ardente ci ricordiamo di non toccarla più in futuro. Inoltre grazie all’infiammazione della mano, che rende i nocicettori più facilmente eccitabili, proteggiamo la nostra mano finché il tessuto è completamente guarito. La stessa cosa avviene per traumi e contusioni: il dolore di lividi e gonfiore porta ad avere cura e attenzione per la zona interessata. Il dolore si è conservato a livello evolutivo ed è presente in tutti gli esseri viventi con un sistema nervoso. Per esempio anche il moscerino della frutta evita le superfici sopra ai 42°C. Inoltre uno studio della University of Sidney ha dimostrato che se al moscerino della frutta viene amputata una zampa evita anche le superfici sopra ai 38 °C perché è diventato ipersensibile al calore. Questa ipersensibilità al calore dipende da alcuni neuroni sensoriali che diventano più eccitabili all’estremità della zampa amputata.
Nonostante l’importanza del dolore per la sopravvivenza esistono alcune persone che non lo provano. Questo dipende da una malattia genetica estremamente rara (la frequenza non è nota) conosciuta come “insensibilità congenita al dolore” (Congenital Insensitivity to Pain, CIP) che spesso è accompagnata dalla mancanza di sudorazione. Chi ne soffre percepisce il tatto normalmente, ma non percepisce gli stimoli nocivi o comunque non sa rispondere a essi. Molte persone con questa malattia riportano lesioni permanenti, tra cui ustioni, danni alla cavità orale e fratture non viste.
Il dolore può diventare cronico?
Normalmente proviamo dolore acuto e limitato nel tempo in risposta al danno a un tessuto, per esempio un taglio, una frattura, oppure una infezione intestinale. Dopo l’iniziale infiammazione e la guarigione del tessuto, anche il dolore scompare. Ma in alcuni casi il dolore può persistere anche se la ferita sembra guarita. Questo è associato a dei cambiamenti nel circuito del dolore. I nocicettori diventano “ipereccitabili” e a loro volta intensificano l’attività degli altri neuroni nel circuito del dolore. Quindi, anche a livello cerebrale i neuroni coinvolti nella percezione del dolore possono cambiare la loro attività. Tutto questo si traduce in una esagerata percezione del dolore in risposta a stimoli normalmente innocui.
"Non è ancora chiaro se sia il dolore cronico a causare la depressione o se chi soffre di depressione abbia più probabilità di sviluppare un dolore cronico."
In Europa una persona su cinque soffre di almeno un tipo di dolore cronico. Il 25 per cento dei partecipanti allo studio CHRIS, lo studio epidemiologico sulla salute dell’Alto Adige di Eurac Research e Azienda sanitaria, ha dichiarato di soffrire di dolore ricorrente da più di sei mesi. Chi ha un tipo di dolore cronico spesso è più suscettibile a svilupparne un altro. Il dolore cronico ha un impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto e spesso si associa a una riduzione del sonno, fatica e depressione. Non è però ancora chiaro se sia il dolore cronico a causare la depressione o se chi soffre di depressione abbia una probabilità più elevata di sviluppare un dolore cronico. Anche in Eurac Research ci siamo interrogati sulla possibilità che la personalità possa avere un’influenza sulla sensibilità al dolore. Nell’ambito di un progetto sui disturbi affettivi dello studio CHRIS, abbiamo ipotizzato che il temperamento, quale componente innata della personalità, possa influenzare la percezione del dolore. I risultati preliminari ottenuti confermano tale ipotesi. Il temperamento affettivo definito “ciclotimia“, uno dei cinque temperamenti affettivi tipicamente descritto da ansia, depressione e instabilità dell’umore, evidenzia una percezione del dolore elevata. Al contrario, il temperamento definito “ipertimico” e caratterizzato da un atteggiamento solare e ottimistico, mostra una sensibilità al dolore opposta. Le diverse basi genetica e neurofisiologica dei due aspetti temperamentali aprono il campo a ulteriori conoscenze e ricerche sui meccanismi di modulazione del dolore e sui fattori di rischio coinvolti nell’abuso di farmaci antidolorifici. La più ampia categoria di condizioni associate al dolore cronico sono le malattie muscoloscheletriche. Tra le più comuni ci sono l’osteoartrite e il dolore di schiena lombare. Nonostante queste malattie siano più comuni, il dolore neuropatico, cioè quello che deriva da un danno o da una perdita di un gruppo di neuroni, è molto più studiato e si ha un’idea migliore delle sue cause. Tra i dolori neuropatici più noti ci sono quelli indotti dal diabete o dalla chemioterapia, che provocano la perdita di neuroni sensoriali.
Quali sono le cause del dolore cronico?
Vari studi epidemiologici confermano che esiste una componente genetica, anche se non è possibile identificare un unico gene responsabile. La più grande difficoltà nell’individuare un gene di rischio per il dolore sta anche nella vasta gamma di malattie che causano dolore cronico e che hanno in parte meccanismi diversi. Inoltre, non sempre i farmaci che funzionano bene nei test sui topi hanno gli stessi benefici sulle persone. Un esempio è il Tanezumab, prodotto da Pfizer, un anticorpo che va ad agire sul cosiddetto “fattore di crescita nervoso” (FCN). Nei topi è stato dimostrato che bloccarlo riduce vari tipi di dolore, come quello da tumore osseo, fratture e osteoartrite. Dopo ben 41 trial clinici su esseri umani per testare l’uso di Tanezumab come antidolorifico per l’osteoartrite, a marzo 2021 la Food and Drug Administration, l’agenzia governativa statunitense che si occupa anche della sicurezza e dell’approvazione dei farmaci , ha deciso di non approvare il farmaco perché dà solo piccoli benefici mentre peggiora lo stato di alcuni pazienti. Le uniche storie di successo nel campo degli antidolorifici degli ultimi anni appartengono alla famiglia degli oppioidi (molecole simili alla morfina). Gli oppioidi riducono l’attivazione dei neuroni coinvolti nel circuito del dolore e in questo modo si percepisce meno dolore. Però gli oppioidi causano molti effetti collaterali, oltre alla dipendenza. Solamente se studiamo i meccanismi che generano la sensazione del dolore a livello cellulare, ovvero quali molecole sono coinvolte, possiamo sviluppare nuovi farmaci che vanno ad agire su esse. Proprio per questo all’Istituto di biomedicina vogliamo identificare nuovi geni coinvolti nel dolore cronico. Come modello studiamo neuroni sensoriali umani. Le ragioni sono due:
1) possiamo evitare differenze di specie – ovvero siamo sicuri che i risultati riflettano la situazione dell’organismo umano, e non, per esempio, quella di un topo; 2) focalizzandoci sui neuroni sensoriali possiamo dare il nostro contributo per ideare dei farmaci che vanno ad agire a livello locale periferico e quindi hanno meno effetti collaterali.
Come si cura il dolore?
Purtroppo, non esiste una vera o propria cura per il dolore. Quando trattiamo il dolore andiamo in realtà a ridurre i sintomi. I medicinali possono agire a livello locale, nel tessuto periferico, oppure penetrare nel sistema nervoso e agire direttamente nel cervello. I medicinali più comunemente usati per trattare il dolore sono elencati nella seguente tabella. Le informazioni sono ripotate a titolo di esempio e non intendono fornire nessuna indicazione terapeutica: tutti i farmaci devono essere assunti sotto controllo medico.
Farmaci
CLASSE DI FARMACI | ESEMPI | AZIONE | EFFETTI COLLATERALI PIÙ IMPORTANTI |
---|---|---|---|
Anti-infiammatori non steroidei | Ibuprofene, aspirina | Antinfiammatori | Disturbi gastrointestinali |
Oppioidi | Morfina, fentanil, metadone, codeina | Agiscono sul sistema nervoso | Nausea, sonnolenza, prurito, costipazione, dipendenza |
Anticonvulsivi (antiepilettici) | Carbamazepina, acido valporico, clonazepam, gabapentin | Agiscono sul sistema nervoso centrale | Fatica, nausea, danni renali |
Antidepressivi | Ketamina, fluoxetina, duloxetina | Agiscono sul sistema nervoso centrale | Mancanza di saliva, mal di testa, vertigini |
Corticosterioidi | Cortisone, prednisone | Antinfiammatori che agiscono anche sul sistema nervoso centrale | Diabete, ipertensione, infezioni, danni alla retina |
Oltre ai medicinali ci sono altre forme di terapia che spesso vengono sfruttate dai pazienti con dolore cronico. Un metodo alternativo al trattamento farmacologico che dà ottimi risultati in una buona percentuale di pazienti, soprattutto chi soffre di dolore neuropatico, è la stimolazione dei neuroni spinali. In pratica si inserisce uno stimolatore nella spina dorsale che viene regolato secondo le esigenze individuali. Non si sa esattamente su quali neuroni agisca, ma si pensa che vada ad attivare prevalentemente neuroni inibitori presenti nel midollo spinale che possono quindi sopprimere l’attivazione del circuito del dolore. Anche l’attività fisica è una forma di terapia. Chi fa attività fisica ha un rischio minore di sviluppare dolore cronico; questo vale anche per le persone anziane. Più regolare, lunga e intensa è l’attività, più il rischio si riduce. Negli individui che hanno dolore cronico, inoltre, l’esercizio fa sì che per un po’ percepiscano meno dolore, anche se non sappiamo con certezza quale sia il meccanismo. Una delle ipotesi è che dopo l’esercizio fisico il corpo rilasci degli oppioidi endogeni, cioè sostanze chimicamente simili alla morfina, ma prodotte naturalmente dal nostro corpo, ad esempio le famose endorfine. Anche per chi soffre già di dolore cronico fare attività fisica diminuisce il dolore cronico e aumenta la qualità di vita.
“Tutti coloro che hanno ricevuto una pillola placebo hanno provato meno dolore, sia chi non sapeva che era inerte sia chi lo sapeva.”
Nella terapia del dolore si può anche sfruttare l’effetto placebo. Il placebo è una sostanza o un trattamento che non ha valore terapeutico. Si parla invece di effetto placebo quando questa sostanza o trattamento viene percepito come terapeutico e produce un miglioramento dei sintomi. L’effetto placebo è molto importante nella terapia del dolore; questo è l’unico caso in cui si riscontra un’efficacia significativa. La cosa forse più sorprendente è che l’effetto placebo analgesico è presente anche quando chi è in cura sa di ricevere una sostanza inerte.
In un recente studio della Harvard Medical School e di Endicott College, pazienti con sindrome dell’intestino irritabile sono stati divisi in tre gruppi: alcuni hanno ricevuto una pillola inerte senza saperlo, altri lo sapevano, altri ancora non hanno ricevuto nessuna pillola. Rispetto a questo ultimo gruppo, tutti quelli che hanno ricevuto una pillola inerte hanno percepito una riduzione del dolore e un miglioramento di altri sintomi correlati alla malattia, sia che non sapessero di aver ricevuto un placebo ma anche nel caso in cui ne fossero a conoscenza.
Sembra che altri trattamenti non convenzionali, per esempio l’agopuntura, non siano più efficaci dell’effetto placebo.
Ma come fa una sostanza inerte ad avere effetto sul dolore? Il meccanismo non è esattamente conosciuto. Tra le teorie che cercano di spiegare il fenomeno una riconosce come una interazione stretta tra persone in cura e personale medico durante la terapia possa avere un effetto positivo; un’altra teoria rimanda all’aspettativa, ma anche solo il desiderio da parte dei pazienti che la terapia possa avere un effetto analgesico. Nonostante non sappiamo cosa causi l’analgesia da placebo, si è visto che è associata a un’attivazione nelle aree del cervello coinvolte nel circuito del dolore. Inoltre studi farmacologici dimostrano che l’effetto placebo coinvolge dei fenomeni biochimici, tra cui la produzione di oppioidi endogeni come l’endorfina.
Come possiamo sviluppare nuovi antidolorifici?
Come abbiamo visto, la sensazione di dolore è il risultato finale di una lunga serie di processi chimici che si propagano lungo il circuito del dolore. Molteplici cellule sono disposte a formare una catena e il segnale passa da un neurone all’altro fino al cervello. I medicinali antidolorifici agiscono in diversi punti di questo circuito: per sviluppare nuovi analgesici è necessario capire i meccanismi che avvengono nelle singole cellule coinvolte nel circuito del dolore e in particolare nei nocicettori. Agendo sull’interruttore iniziale del circuito doloroso, cioè il nocicettore, si possono evitare alcuni effetti indesiderati dei farmaci. Non a caso, nel 2021 il premio Nobel per la medicina è andato a David Julius e Ardem Patapoutian per il loro meticoloso lavoro alla ricerca dei recettori che sono in grado di riconoscere stimoli caldi, freddi e meccanici. Grazie alla scoperta di questi recettori non solo hanno capito come il nostro corpo distingua stimoli di diversa natura, ma anche come questi recettori e altre molecole siano coinvolte all’interno dei nocicettori nel meccanismo che provoca il dolore cronico.
Cosa succede nelle cellule quando si attiva un nocicettore
Il primo elemento del circuito è il nocicettore, che capta lo stimolo fisico (calore, pressione, ecc.) e lo converte in un segnale elettrico che si trasmetterà rapidamente da una cellula all’altra lungo tutto il circuito, proprio come una corrente.
Per innescare questa corrente servono delle proteine incastonate nella membrana cellulare del nocicettore. Queste proteine sono disposte in modo da formare dei canali capaci di aprirsi e chiudersi. Normalmente i canali sono chiusi e il nocicettore è inattivo. Lo stimolo doloroso provoca l’improvvisa apertura di alcuni canali e una repentina scarica di ioni di sodio positivi (Na+) entra nel nocicettore. Si genera così un forte squilibrio e una corrente inarrestabile inizia a propagarsi.
Dopo poche frazioni di secondo i canali si richiudono e il flusso si interrompe; contemporaneamente si aprono degli altri canali, che fanno uscire ioni di K+ (potassio) per evitare un eccesso di positività. A mano a mano che gli ioni defluiscono, si ripristina una situazione di equilibrio iniziale e il nocicettore torna alla condizione di riposo.
Studiare questi meccanismi cellulari e capire quali molecole sono coinvolte in questi processi può aiutarci a sviluppare nuovi farmaci capaci di bloccare o rallentare questa informazione “dolorosa”.
Dai dati dello studio CHRIS è emerso un potenziale gene di rischio per il dolore cronico: il gene KCND3. Questo particolare gene contiene le informazioni necessarie per produrre un canale del potassio, che è presente sulla membrana dei nocicettori coinvolti nella trasmissione del dolore.
Nei laboratori delle università di Harvard (Usa) e Taipei (Taiwan) si sono svolti studi su topi.
Nei topi privi del gene KCND3, la risposta a uno stimolo è molto più veloce del normale perché i loro nocicettori si attivano molto più in fretta. Questo potrebbe significare che percepiscono più dolore. Inoltre, in topi che soffrono di dolore neuropatico l’espressione di KCND3 è alterata, ma quando viene riportata al suo normale livello il dolore si riduce.
In Eurac Research studiamo le mutazioni identificate nel gene KCND3 per capire se anche le persone che hanno queste mutazioni hanno nocicettori ipereccitabili, e quindi più attivi del normale, e di conseguenza provano più dolore.
Usando cellule staminali pluripotenti indotte (cellule staminali generate artificialmente a partire da cellule adulte, in questo caso del sangue) possiamo ottenere nocicettori in coltura. Per fare ciò sfruttiamo un protocollo sviluppato dai nostri collaboratori all’università di Heidelberg.
Usando queste cellule possiamo studiare direttamente se le varianti genetiche in KCND3 evidenziate dallo studio CHRIS rendono i nocicettori più eccitabili in risposta a stimoli di diversa natura. Studiamo anche il canale del potassio KCND3, per capire se è espresso in una categoria specifica di nocicettori. In un secondo momento, controlleremo se i medicinali già approvati che agiscono sul gene KCND3 possano essere sfruttati per ridurre l’ipereccitabilità e quindi il dolore. Questo modello cellulare dei nocicettori potrà anche essere usato per studiare l’effetto di altri geni del dolore identificati nello studio CHRIS.
Autrice: Larissa de Clauser
Redazione: Laura Eccel, Valentina Bergonzi
Grafica: Alessandra Stefanut
Illustrazioni: Oscar Diodoro
Gli studi sul dolore sono svolti nella cornice di un progetto finanziato dal “Seal of Excellence” della Provincia autonoma di Bolzano.