Nel 2011 gli scienziati dell'Università di Pisa hanno dimostrato, analizzando il suo scheletro, che Francesco I de' Medici, Granduca di Toscana (qui ritratto da Scipione Pulzone), morì di malaria. Ora un team di ricerca guidato da Eurac Research ha individuato l’agente patogeno della pericolosa malaria tropica in un tessuto molle estratto da vasi per l’imbalsamazione, ma non è stato possibile stabilire da quale membro della famiglia provenisse il tessuto.
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La malaria al tempo dei Medici
L’agente patogeno della forma più letale della malattia è stato trovato nei tessuti molli mummificati di membri della dinastia fiorentina.
Nell’Italia rinascimentale la malaria era ancora endemica e le fonti storiche dimostrano che anche i membri della famiglia Medici la avessero contratta. All’epoca il nome dato alla malattia era “febbre terzana” per via dei regolari attacchi di febbre a intervalli di due giorni che provocava. Nei tessuti molli contenuti nei vasi da imbalsamazione conservati nella basilica di San Lorenzo a Firenze, un team di ricerca guidato da Eurac Research ha individuato al microscopio il parassita Plasmodium falciparum, l’agente che causa la pericolosa malaria tropica.
La potente dinastia seppelliva i suoi morti secondo un rituale particolare: durante l’imbalsamazione, le interiora venivano rimosse e riposte in grandi vasi di terracotta, detti orci, che venivano seppelliti insieme alle bare nella basilica di San Lorenzo a Firenze. Nel 2010 i ricercatori hanno potuto analizzare nove di questi orci decorati con lo stemma della famiglia, due dei quali etichettati anche con i nomi di specifici membri della famiglia. Con lunghe pinzette hanno recuperato quello che a prima vista poteva sembrare “materiale insignificante”, spiega l’antropologo Albert Zink, che ha guidato l’indagine: “Potevano essere anche brandelli di tessuto, ma erano di fatto tessuti mummificati di origine sconosciuta. Il nostro primo interesse è stato quindi quello di scoprire di cosa si trattava: si vedeva ancora la struttura di un organo? Potevamo capire da quale organo provenissero i campioni?”. I ricercatori hanno prelevato un totale di 24 campioni, che hanno poi sottoposto ad analisi microscopiche e molecolari.
Le indagini molecolari non hanno portato lontano: il materiale era troppo degradato, l’Arno aveva inondato Firenze più volte dall’epoca medicea, le forti fluttuazioni di temperatura avevano fatto il resto, tanto che “le proteine o il DNA non sono quasi più presenti”, spiega il microbiologo e primo autore dello studio Frank Maixner, “ma non tutto era perso e la struttura microscopica era molto interessante e e promettente”. Le sottili sezioni di tessuto hanno rivelato un possibile vaso sanguigno con agglomerati di globuli rossi.
L’utilizzo di uno speciale metodo di colorazione, chiamato colorazione di Giemsa, ha fornito la prova dell’esistenza di un parassita all’interno di queste cellule sanguigne. Si tratta di “una scoperta sorprendente” spiega Maixner, ma non inequivocabile: i parassiti potevano essere plasmodi, ma anche altri agenti patogeni, come la babesia.
I ricercatori hanno quindi utilizzato una tecnica ancora più precisa, avvalendosi di un microscopio a forza atomica: le superfici vengono scansionate con un ago nanoscopicamente sottile, rendendo visibili anche le più piccole differenze di altezza e le strutture tridimensionali. Questo ha permesso di riconoscere le tipiche strutture ad anello che caratterizzano uno degli stadi di sviluppo dei parassiti plasmodi, sebbene possano essere formate anche dalla babesia.
Infine, il metodo immunoistochimico, che consente di rilevare gli antigeni nelle sezioni di tessuto, ha dato la certezza. È stato così possibile identificare chiaramente il parassita: si tratta di Plasmodium falciparum, l’agente che causa la forma più letale di malaria, la malaria tropica, che si manifesta principalmente nella regione equatoriale.
I parassiti sono stati individuati in molte delle cellule del sangue esaminate. All’interno delle singole cellule del sangue sono state riconosciute anche le tipiche strutture di membrana che il patogeno Plasmodium falciparum stesso forma nel corso dell’infezione. “Queste cosiddette fessure di Maurer sono organelli cellulari importanti per l’interazione tra l’ospite e il parassita. Tra le altre cose, sono coinvolte nel trasporto delle proteine del parassita e possono quindi influenzare in modo significativo il decorso della malattia”, spiega la ricercatrice sulla malaria e coautrice dello studio Nicole Kilian della Clinica universitaria di Heidelberg.
In un’ulteriore analisi, gli scienziati hanno esaminato la struttura degli zuccheri presenti sulla superficie delle cellule del sangue perché questa determina il gruppo sanguigno. Il gruppo sanguigno della persona infetta era il B; chi ha questo gruppo è meno resistente alla malaria. Tuttavia, non è più possibile scoprire di quale membro della famiglia si trattasse: il vaso di terracotta da cui proviene il campione non era etichettato.
Lo studio
Lo studio, che ha coinvolto istituti di ricerca in Europa, Stati Uniti e Corea, è stato pubblicato nel numero di giugno della rivista “Emerging Infectious Diseases”: https://wwwnc.cdc.gov/eid/article/29/6/23-0134_article