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Quando la psiche non riesce a riposare dopo un incidente

11 giugno 24

Quando la psiche non riesce a riposare dopo un incidente

Un gruppo di ricerca ha studiato lo stress post-traumatico dopo un incidente in montagna


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Una giornata da sogno in montagna può rapidamente finire male: un incidente, anche se si conclude in modo lieve, può avere un grave e lungo impatto sulle persone colpite. Il 20 per cento delle pazienti e dei pazienti trattati in ospedale che sono stati intervistati soffre infatti di sintomi di disturbo da stress post-traumatico ancora sei mesi dopo un incidente in montagna. Questo è quanto osservato da un team interdisciplinare dell’Università medica di Innsbruck, guidato da Katharina Hüfner, con il supporto di Eurac Research, che ha condotto per la prima volta questo tipo di indagine.

Il concetto di disturbo da stress post-traumatico (nell’acronimo inglese, PTSD) è spesso associato a esperienze di guerra e violenza. Tuttavia, anche una caduta sulle piste da sci o un incidente in bicicletta in montagna possono provocare questa sintomatologia. Un team interdisciplinare guidato da Katharina Hüfner del Dipartimento universitario di psichiatria e formato da colleghi e colleghe della Clinica universitaria di ortopedia e traumatologia e dai medici d’emergenza in montagna Hermann Brugger di Eurac Research e Peter Paal (anestesista e presidente dell’ÖKAS, la commissione austriaca che si occupa di sicurezza in montagna), ha studiato per la prima volta l’insorgenza del PTSD dopo gli incidenti in montagna. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista specializzata European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience.

Il team di ricerca ha invitato pazienti maggiorenni di lingua tedesca a partecipare a un sondaggio online alcuni mesi dopo essere stati curati a causa di un incidente in montagna presso la Clinica universitaria di ortopedia e traumatologia di Innsbruck. Il totale di 307 partecipanti aveva subito lesioni minori (37 per cento), moderate (35 per cento) e gravi (28 per cento). La maggior parte di questi incidenti si è verificata durante lo sci o lo snowboard su piste sicure (poco meno del 60 per cento), seguiti da ciclismo ed escursionismo. L’obiettivo dell’indagine era scoprire come le vittime degli incidenti avessero affrontato psicologicamente l’evento.

Il risultato dello studio: solo l’1,3 per cento di chi ha partecipato ha sviluppato un vero e proprio PTSD. Il 20 per cento invece ha mostrato sintomi individuali di PTSD sei o più mesi dopo l’incidente in montagna. “Subito dopo il fatto, si parla di reazione psicologica acuta allo stress. È normale essere irrequieti, sentirsi insensibili o dormire male. Di solito tutto questo cessa dopo qualche giorno. Si parla invece di disturbo da stress post-traumatico quando i sintomi persistono o si manifestano solo dopo alcune settimane o mesi”, spiega Katharina Hüfner. C’è chi ha dei flashback – cioè rivive l’accaduto più e più volte e viene immediatamente trasportato nel ricordo dell’incidente da stimoli sensoriali come odori o voci –, chi evita tutto ciò che potrebbe ricordare la situazione traumatica, chi ha sbalzi d’umore o mostra reazioni di stress come irritabilità o disturbi del sonno: questi sono tutti sintomi che potrebbero indicare il disturbo da stress post-traumatico. “La paura e l’impotenza provate durante l’incidente non vengono incasellate nella memoria, ma permangono nel presente”.

Un terzo delle persone esce rafforzato dall’incidente Grazie ad un algoritmo che sfrutta il machine learning utilizzato per analizzare i questionari, i pazienti e le pazienti sono stati assegnati a tre gruppi di modelli di reazione psicologica: un gruppo non mostrava sintomi di PTSD ed era mentalmente sano. Un secondo gruppo, mediamente di età più giovane, mostrava sintomi che potevano indicare PTSD e allo stesso tempo sintomi di depressione, panico e ansia. Queste persone riferivano anche una scarsa qualità di vita e spesso soffrivano ancora delle conseguenze fisiche dell’incidente. Molte di queste persone avevano una storia di disturbi psicologici, come episodi depressivi o segni di burnout. La caratteristica del terzo gruppo invece era la cosiddetta “crescita” post-traumatica: “Dopo un evento negativo si può trarre una certa forza per la propria vita, sviluppandosi in positivo. Ad esempio, ci si rende conto di avere buoni amici, di sentirsi sostenuti o di apprezzare maggiormente alcune cose che prima si davano per scontate”, afferma Hanna Salvotti, prima autrice dello studio.

Una maggiore sensibilizzazione attraverso l’informazione Ora l’obiettivo di un progetto futuro sarà quello di identificare strumenti prognostici che consentano di valutare il rischio di PTSD nelle vittime di incidenti, in modo da offrire loro un supporto mirato fin dall’inizio. A quanto pare, la gravità della lesione non è così importante: “Si può essere salvati da una valanga senza ferite e sviluppare comunque un disturbo post-traumatico da stress”, afferma Hermann Brugger. Il medico, cofondatore dell’Istituto di medicina d’emergenza in montagna di Eurac Research a Bolzano, aveva già studiato alcuni anni fa l’insorgenza del PTSD nelle vittime di valanghe e ha supportato il gruppo di ricerca di Innsbruck nell’elaborazione del questionario.

Nel frattempo il personale della Clinica universitaria di ortopedia e traumatologia sta prestando ancora più attenzione all’informazione dei pazienti sui sintomi psicologici che seguono un incidente. “È importante informare e sensibilizzare le persone su quali sintomi sono ‘normali’ dopo un incidente in montagna, su cosa possono fare da soli per stare meglio e su quando dovrebbero cercare aiuto. Il disturbo da stress post-traumatico è sicuramente una malattia che può essere curata”, sottolinea Hüfner.

Il progetto è stato realizzato con il sostegno finanziario della Società tedesca di medicina di montagna (Deutsche Gesellschaft für Berg- und Expeditionsmedizin ).

Link alla pubblicazione scientifica “Three distinct patterns of mental health response following accidents in mountain sports: a follow‑up study of individuals treated at a tertiary trauma center”: https://doi.org/10.1007/s00406-024-01807-x

Katharina Hüfner, Università medica di Innsbruck© MUI/D. Bullock

Hermann Brugger, Eurac Research© Eurac Research - Annelie Bortolotti

© Eurac Research - Annelie Bortolotti

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