“Benvenuti nell’era della nuova globalizzazione”. Intervista con Roland Benedikter
Cosa verrà dopo? Sembra davvero difficile fare una previsione in questo momento. Non è ancora finita: la crisi si sta sviluppando sotto i nostri occhi. Tuttavia, la pandemia causata dal coronavirus ha già cambiato drasticamente le nostre abitudini. Basti pensare che quasi quattro miliardi di persone, ossia metà degli abitanti sulla Terra, sono stati chiamati a restare a casa per combattere la diffusione del Covid-19. Oltre alle gravi conseguenze economiche, che potrebbero essere pesantissime, alla globalizzazione, che sembra giunta ad un bivio, ci sono anche altre paure – più profonde – che riguardano ognuno di noi. Abbiamo intervistato Roland Benedikter, condirettore del Center for Advanced Studies di Eurac Research di Bolzano, specializzato in Multidisciplinary Political Analysis, Globalizzazione e Foresight & Technology. È interessato alla visione multiprospettica dei fenomeni del tempo e si chiede come queste e le future pandemie influenzino la comunità mondiale e i precedenti ordini degli Stati. Il ricercatore ci spiega come la crisi abbia dimostrato che la globalizzazione, almeno nella sua forma attuale, è cambiata.
Elmar Burchia: Signor Benedikter, è la fine del mondo: la fine del mondo che conosciamo?
Roland Benedikter: No, non è la fine del mondo. E nemmeno della globalizzazione. Tuttavia, sono convinto che dopo questa crisi ci saranno delle correzioni sulle modalità con cui abbiamo concepito la globalizzazione stessa fino a qui.
Che cosa intende?
Benedikter: Non è nulla di nuovo, in realtà. Di una correzione della globalizzazione si parlava da più parti già prima dell’emergenza sanitaria. Nell’incertezza degli scenari internazionali si è fatta strada una tendenza alla “rinazionalizzazione”, alla politica protezionista in quasi tutte le democrazie; alla sospensione degli accordi internazionali; ai movimenti a tutela dell’ambiente come i “Fridays For Future”. La globalizzazione era in crisi già prima di questa emergenza. E da un po’ di tempo in tanti stavano ragionando su come “trasformarla”, come “ri-globalizzare” il mondo.
La crisi della globalizzazione, dunque, è esplosa in tutta la sua forza…
Benedikter: La pandemia e la crisi sociale non faranno altro che velocizzare e intensificare questi processi di riforma. Noi, infatti, siamo chiamati a ripensare tutto il sistema: dobbiamo iniziare a implementare processi più bilanciati, razionali e contestualizzati.
In altre parole: si tornerà al “local”, a fare la spesa nei negozi sotto casa, ai prodotti regionali?
Benedikter: Certamente. È un trend che si sta rafforzando sempre di più. Un fenomeno che riguarda tutti i paesi occidentali. Coinvolge non solo la produzione ma anche gli investimenti che saranno – come si dice in gergo – almeno in parte “re-shored”, cioè si investirà di più localmente. Perché è aumentato il bisogno di sicurezza. Quello che è più vicino a noi, lo consideriamo più sicuro – sebbene a volte sia anche più costoso. Un’evoluzione assolutamente positiva, visto che rafforza i circuiti economici locali. Inoltre, può rafforzare quello che il “sistema Alto Adige“ ha sempre cercato di privilegiare.
Le aziende grandi e piccole, forse, ci penseranno due volte prima di delocalizzare la produzione all’estero?
Benedikter: Sicuramente. Noi europei – prima di questa pandemia – ci sentivamo invulnerabili. Questo sogno, tuttavia, è stato bruscamente interrotto. A livello medico, di protezione civile, militare, ma anche di brevetti e diritti d’autore, l’Europa ha trascurato interi settori. Settori critici. E ne stiamo pagando le conseguenze. Ciononostante, vedo delle opportunità, anche per le società altamente globalizzate e per le start-up. Mi viene in mente l’esempio del Vorarlberg, in Austria: diverse aziende tessili stanno assumendo e puntano alla produzione di mascherine, con la riconversione di alcuni stabilimenti. Finora, quelle mascherine arrivavano solo dalla Cina. La creazione di nuovi ecosistemi di produzione in Europa sarà un’opportunità, anche economica. Che avrà ripercussioni per l’intera società.
La “corona economy” è anche un prezioso esperimento…
Benedikter: In realtà, un cambiamento era nell’aria. Peraltro, già “previsto” nel 2014 dal professor Ian Goldin. Il direttore della Oxford 21st Century Martin School lo chiamava “Butterfly Effect”, l’effetto della farfalla. Si dice che il minimo battito di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. E quello che è successo in Cina nei primi mesi dell’anno, lo abbiamo visto e vissuto da noi in Europa poche settimane dopo. La globalizzazione non è solamente sinonimo di opportunità: alza pure il livello di rischio complessivo, per tutti.
E qual è secondo lei la via maestra?
Benedikter: A mio avviso, ci sono due possibili strade da prendere: quella dell’isolazionismo, seguita dopo la prima guerra mondiale. Ovvero: ogni nazione pensa ai propri interessi. Il rischio, però, è una decrescita. Oppure, quella cruciale per la sopravvivenza dell’Europa: la via seguita dopo la fine del secondo conflitto mondiale con la creazione del sistema di “Bretton Woods”, quell’insieme di regole riguardanti le relazioni commerciali e finanziarie internazionali tra i principali paesi industrializzati, tutti diretti a una cooperazione regolatrice più forte che sarebbe bene andasse di pari passo con la crescita dell’interscambio economico.
Lo smart working, l’e-learning, l’università a distanza sono diventati forzosamente, e in pochi giorni, la realtà quotidiana per milioni di persone. Dopo il virus, diventeremo un popolo pienamente digitale?
Benedikter: Non penso. I due settori maggiormente colpiti da questa crisi saranno il turismo da una parte e l’università dall’altra. Due settori altamente globalizzati dove, purtroppo, le ripercussioni saranno più pesanti. Quello che abbiamo appreso è che nel turismo, nell’ambito accademico e in quello dell’educazione, il contatto umano diretto non può essere completamente sostituito da quello virtuale. Una volta che la crisi sarà passata, l’incontro personale sarà apprezzato e valorizzato ancora di più. Probabilmente anche in termini economici.
In cosa la crisi l’ha cambiata personalmente?
Benedikter: A livello di gerarchia sociale. Una crisi porta sempre alla riscoperta di valori. Come altri, anch’io ho iniziato a stimare di più quelle professioni che prima della crisi non erano quasi considerate: il personale infermieristico, chi lavora nei supermercati, i farmacisti, le forze dell’ordine. Per me sono degli “eroi”. Resistono, sebbene siano spesso sottopagati, ossia non pagati a sufficienza in relazione alla loro importanza nella società.
L’emergenza sanitaria ha visto il ritorno dell’esperto, delle competenze nel dibattito pubblico…
Benedikter: È vero. Abbiamo bisogno sia degli esperti, che ci spiegano il singolo problema in modo approfondito, che di quelli che non privilegiano un particolare settore specialistico. Confido nel fatto che in Europa possano presto nascere nuovi think thank, organismi che guardano al futuro, che seguano l’esempio del Future of Humanity Institute dell’università di Oxford. Abbiamo bisogno di centri di ricerca interdisciplinare che permettano di pensare alle priorità globali, alle grandi questioni dell’umanità e ai rischi in maniera interconnessa. Bisogna includere matematici, filosofi, scienziati. Ma anche generalisti, ossia quelle figure non necessariamente specializzate in campi particolari.
Dove c’è cambiamento, c’è opportunità. Anche per l’Alto Adige?
Benedikter: Assolutamente sì. Penso all’economia sociale, a quella sostenibile. Alla fuga dei cervelli, soprattutto quelli giovani, che spero rallenti. E poi: alla riscoperta dei prodotti e delle aziende locali, all’opportunità di nuove start-up. Magari proprio nell’ambito della medicina, della ricerca, della prevenzione dei rischi. Non sono solo i virus a minacciarci. L’innovazione tecnologica sta facendo enormi passi. Basti pensare agli esperimenti per connettere direttamente il cervello umano con quello animale e all’intelligenza artificiale. A questa tecnica sono certamente correlati dei rischi, che non conosciamo e ai quali non siamo preparati, ma che vanno studiati. E in questo campo, per i settori di nicchia dell’Alto Adige, vedo sicuramente delle opportunità.
Questo articolo è stato pubblicato per primo il 21 aprile 2020 su NOI Magazine.
Elmar Burchia, ladino e sudtirolese della Val Badia. Giornalista per Corriere della Sera e Dove Viaggi, social editor per Rcs. Da quando, a metà marzo, è scattata l’emergenza sanitaria, e il successivo lockdown di Milano, è tornato a casa, a La Villa. Nonostante tutto, continua a lavorare da remoto. E con una splendida vista sulle Dolomiti, scrivere i pezzi – per fortuna – non è spiacevole. |
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