Contents

Page 1 - Rapporto migrazioni Alto Adige 2020
Page 2 - Perchè questo rapporto
Page 3 - Alto Adige e migrazioni
Page 4 - Società, lingua, religione
Page 5 - Educazione, edilizia abitativa, salute
Page 6 - Mercato del lavoro
Page 7 - Politiche sull'integrazione
Page 8 - Raccomandazioni
Page 9 - Chi ha realizzato questo rapporto
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Alto Adige e migrazioni

I fenomeni migratori – si tratti di immigrazione, emigrazione o movimenti interni alla provincia di Bolzano – interagiscono con le caratteristiche spaziali e demografiche del territorio altoatesino

In questo capitolo offriamo, in apertura, una prospettiva storica sui processi che, dall’inizio del XX secolo, hanno determinato movimenti collettivi di popolazione da e verso l’Alto Adige nonché al suo interno. Un caso particolare è quello degli abitanti di Curon Venosta chiamati a scegliere, a metà del secolo scorso, se rimanere in un paese d’origine trasfigurato o abbandonarlo. Introduciamo poi il sistema di rappresentanza proporzionale, chiamato a misurarsi con la presenza di nuove minoranze, e i mutamenti linguistici, esito in parte anche di movimenti migratori. Concentrandoci sulle caratteristiche spaziali della provincia, descriviamo in seguito la distribuzione e i flussi di residenti tra contesti urbani e rurali, l’impatto della migrazione sui meccanismi di gestione del territorio come gli usi civici e infine la necessità di adattare le politiche di gestione dei rischi ambientali alla luce della presenza di nuovi cittadini di origine straniera. Riflettiamo, infine, sulla vocazione turistica dell’Alto Adige e sul legame tra questa e la cultura dell’accoglienza, per poi rivolgere lo sguardo a come le migrazioni in ambito locale si inseriscano all’interno di dinamiche e dibattiti globali. Con l’intervista finale approfondiamo il valore simbolico del confine del Brennero nel corso della recente fase di arrivi di richiedenti asilo.

1940, famiglia di optanti a Innsbruck, davanti all’Hotel Victoria, sede della Dienststelle Umsiedlung Südtirol che gestiva parte delle pratiche di chi arrivava dall’Alto Adige. Credit: Annemarie Molling | All rights reserved

ECCO ALCUNI ESTRATTI DAL CAPITOLO “ALTO ADIGE E MIGRAZIONI”.

Estratto - Non resto qui: le migrazioni ambientali e il caso di Curon Venosta


Intervista a GERTRUD BALDAUF

Nel 1939 il governo italiano autorizzò il progetto della società Montecatini per la realizzazione di una diga di sbarramento a Resia, in Alta Val Venosta. Durante la guerra i lavori furono interrotti ma nel 1947 si proseguì la costruzione della diga che fu portata a termine nel 1950. Il lago sommerse circa 770 ettari, di cui 500 coltivati a campi e pascoli; furono distrutte più di 150 case, a 150 famiglie fu sottratta la propria fonte di sussistenza. A quel tempo, Gertrud Baldauf era una bambina di sei anni. La sua famiglia decise di non rimanere e nel 1952 si trasferì a Kirchdorf nel Tirolo austriaco, dove Gertrud, che ora ha 77 anni, risiede ancora oggi.

Da bambina era consapevole che la diga rappresentasse una minaccia?
Avevamo capito che i nostri genitori erano preoccupati ma eravamo bambini e non ci badavamo molto. Ricordo però che una volta, vedendo passare un camion della Montecatini, gli abbiamo tirato dei rami secchi, urlando “Montecatini merda!”. Avevamo capito che qualcosa stava succedendo.


La sua famiglia ha abbandonato l’abitazione. Quando è accaduto?
Ce ne siamo andati di casa soltanto alla prima prova di sbarramento. Hanno allagato in modo drastico, nonostante le persone vivessero ancora nelle case: volevano mostrare che facevano sul serio, volevano costringere le persone ad andarsene. Vivevamo in una casa nel fondovalle e l’appartamento era al primo piano: l’acqua ci ha raggiunti per primi. Poi ci siamo trasferiti a Obergraun, e lì mia mamma ha avuto un altro bambino. E quando le case sono state distrutte anche lì, ci siamo dovuti trasferire nelle baracche.


Nel 1952 avete poi lasciato definitivamente Curon…
Sì. Una sorella di mio padre si era sposata a Schwendt in Tirolo e suo marito ci ha informato che a Kirchdorf c’era un podere in vendita. La casa era vecchissima, molto povera, ma attorniata da bei campi. Non appena gli abitanti della zona hanno saputo che mio padre aveva intenzione di acquistare il podere, improvvisamente si sono mostrati interessati anche loro: l’idea che potesse entrare in possesso di un sudtirolese non piaceva per niente.


Con quali sentimenti ripensa oggi agli eventi passati?
Per me sono un brutto ricordo, a cui oggi semplicemente va dato un colpo di spugna. È successo, cosa ci possiamo fare. Oggi, però, una cosa del genere non potrebbe più accadere, la gente non sarebbe disposta a tollerarlo.

*Gertrud Baldauf bambina ritratta assieme alla nonna
e al suo fratellino nel vecchio paese di Curon.*
© courtesy of Gerdrud Baldauf

Estratto - Proprietà collettive e accesso alle risorse condivise del territorio montano per i nuovi abitanti


Intervista a ROBERT BRUGGER

In montagna, pascoli e boschi sono spesso proprietà collettive, cioè proprietà comuni e indivise tra gli appartenenti a una comunità. Secondo Paolo Grossi, ex presidente della Corte costituzionale, sono “un altro modo di possedere”, né pubblico né privato. In Alto Adige circa il 40 per cento della superficie boschiva è di proprietà collettiva. In alcuni casi poche famiglie si tramandano beni e diritti in eredità. In altri contesti tutti i residenti di una frazione sono proprietari. È il caso delle Asbuc (Amministrazioni separate di beni di uso civico) dell’Alto Adige, Asuc in Trentino; un comitato di gestione supervisiona i beni e regola chi, come e quando può usarli. Robert Brugger è presidente dell’Asuc Rover Carbonare: 150 ettari di boschi e pascoli estesi per due terzi in Alto Adige. In questa intervista spiega come funzionino i beni di uso civico nelle due province e quali siano le prospettive future di inclusione.


Chi può avanzare diritti sui beni della vostra Asuc?
Chiunque risieda nella frazione (dunque a prescindere da qualsiasi caratteristica personale, quali nazionalità o genere) può, per esempio, tagliare legna e far pascolare gli animali nei boschi e nei prati collettivi. Servono invece dieci anni per maturare il diritto a essere eletti nel comitato di gestione. Questo vincolo non è una barriera, ma un modo per sincerarci che chi partecipa alle decisioni voglia veramente vivere in comunità.


Come fa chi non è nato nella frazione a dimostrare di voler essere parte della comunità?
Il legame con l’ambiente è essenziale: serve amare e conoscere profondamente il territorio per tramandarlo intatto. Per statuto, nelle Asuc e Asbuc il territorio non va sfruttato per trarne profitto. C’è poi un criterio non scritto, ma altrettanto importante: la solidarietà. Un esempio che rende l’idea: quando nell’ottobre del 2018 la tempesta Vaia ci ha lasciato senza corrente per più giorni chi possedeva un generatore lo ha prestato a turno agli altri.


Ci sono nuovi abitanti nella vostra frazione?
Una signora ucraina e alcune famiglie trasferitesi da altre regioni: qualcuno partecipa di più alla vita di comunità, qualcuno fa vita più ritirata. Del resto, abbiamo difficoltà a coinvolgere non solo i nuovi abitanti ma anche i più giovani: sia per le attività di manutenzione, come la pulizia del parco giochi, sia per organizzare le feste e gli eventi della comunità o partecipare alle assemblee dell’Asuc e Asbuc.


Ce lo vedrebbe un nuovo abitante in un ruolo chiave?
Io stesso sono arrivato vent’anni fa da un altro comune; ora sono presidente e non mi fanno più andare via. Non so parlare in dialetto ma ho imparato dalla gente del posto a far legna rispettando i tempi del bosco e scegliendo le piante giuste. Così ho guadagnato la loro fiducia. Certo, ci vuole tempo. Chi arriva da paesi molto diversi per cultura, come l’India o l’Africa, solleva qualche diffidenza in più: imparerà mai a conoscere il territorio? Ma in Trentino c’è già una allevatrice di origine africana che manda avanti una azienda biologica facendo pascolare le sue capre su terreni di uso civico. Perché no?

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